L’Iran torna a parlare di nucleare con l’Occidente, su Teheran incombono possibili sanzioni

  • Postato il 25 luglio 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Ancora una volta, Istanbul è al centro di colloqui internazionali. Oggi, nella megalopoli sul Bosforo sono atterrati i diplomatici iraniani per riprendere i negoziati sul nucleare con le controparti di Germania, Gran Bretagna e Francia. La spada di Damocle che le tre potenze europee faranno oscillare sul capo del team diplomatico inviato dal regime iraniano sono le sanzioni “snapback” delineate nell’accordo del 2015. La procedura nota come “snapback” se venisse adottata nuovamente reintrodurrebbe le sanzioni ONU contro Teheran. Se le parti non riuscissero ad appianare le accuse di “significativa inadempienza” dell’Iran, questa procedura potrebbe essere avviata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, composto da 15 membri.

Una volta avviata, entro 30 giorni il Consiglio di Sicurezza dovrà votare una risoluzione per la prosecuzione della revoca delle sanzioni all’Iran, che richiederà nove voti favorevoli e nessun veto da parte di Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna o Francia ( membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, ndr) per essere approvata. Se invece la risoluzione non venisse adottata, tutte le sanzioni ONU all’Iran verrebbero reintrodotte, a meno che il Consiglio di Sicurezza non prenda altre decisioni.

L’Iran ha dichiarato questa mattina che l’incontro con Germania, Gran Bretagna e Francia rappresenterà per queste un’opportunità per “correggere” la loto posizione sul programma nucleare di Teheran. Con la solita tracotanza, a uso domestico, il portavoce del ministero degli Esteri, Esmaeil Baqaei, ha tuonato, attraverso l’agenzia di stampa ufficiale Irna, che l’Iran si aspetta dall’incontro – in corso mentre scriviamo – una “prova di realismo da parte degli europei e una preziosa opportunità di correggere le loro opinioni sulla questione nucleare iraniana”. L’incontro è il primo dopo l’attacco israeliano all’Iran di metà giugno che ha scatenato una guerra di 12 giorni e ha preso di mira siti nucleari e militari chiave.

L’offensiva israeliana – che ha ucciso comandanti di alto rango, scienziati nucleari e centinaia di altre persone, mentre venivano colpite anche aree residenziali – aveva fatto fallire i colloqui nucleari tra Stati Uniti e Iran iniziati ad aprile. Da allora, le potenze europee, note come E3, hanno minacciato di attivare il “meccanismo di snapback”, che ripristinerebbe, per l’appunto, le sanzioni delle Nazioni Unite contro l’Iran entro la fine di agosto, in base all’accordo nucleare del 2015, oggi piú morto che moribondo. L’opzione per attivare lo snapback scade il 1° ottobre e Teheran ha avvertito delle conseguenze qualora l’E3 decidesse di attivarlo. “L’inazione dell’E3 non è un’opzione”, ha affermato una fonte europea, che ha poi aggiunto: “Le potenze europee si stanno preparando ad attivare il meccanismo in assenza di una soluzione negoziata” e ha invitato l’Iran a compiere “gesti chiari” in merito all’arricchimento dell’uranio e alla ripresa della cooperazione con l’organismo di controllo nucleare delle Nazioni Unite.

Il viceministro degli Esteri iraniano Kazem Gharibabadi, che parteciperà ai colloqui assieme all’alto diplomatico iraniano Majid Takht-Ravanchi, ha avvertito questa settimana che l’attivazione delle sanzioni “sarebbe del tutto illegale”. Ha anche accusato gli europei di “aver interrotto i loro impegni” nei confronti dell’accordo dopo il ritiro unilaterale degli Stati Uniti nel 2018, durante il primo mandato del presidente Donald Trump. “Li abbiamo avvertiti dei rischi, ma stiamo ancora cercando un terreno comune per gestire la situazione”, ha dichiarato Gharibabadi. Insomma, i diplomatici iraniani hanno avvertito che Teheran potrebbe ritirarsi dal trattato globale di non proliferazione nucleare se le sanzioni ONU venissero reintrodotte.

Il ripristino delle sanzioni approfondirebbe l’isolamento internazionale dell’Iran e metterebbe ulteriore pressione sulla sua economia già in difficoltà. Il ministro degli Esteri israeliano Gideon Saar ha esortato le potenze europee ad attivare il meccanismo. L’attacco israeliano del 13 giugno contro l’Iran è avvenuto due giorni prima dell’incontro previsto tra Teheran e Washington per il sesto round di negoziati sul nucleare. Il 22 giugno, gli Stati Uniti stessi hanno colpito gli impianti nucleari iraniani di Fordo, Isfahan e Natanz. Prima della guerra, Washington e Teheran erano divise sull’arricchimento dell’uranio, che l’Iran ha descritto come un diritto “non negoziabile”, mentre gli Stati Uniti lo definivano una “linea rossa”.

L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) afferma che l’Iran sta arricchendo l’uranio al 60% di purezza, ben al di sopra del limite del 3,67% previsto dall’accordo del 2015 e vicino ai livelli di qualità militare. Teheran ha dichiarato di essere disponibile a discutere il tasso e il livello di arricchimento, ma non il diritto di arricchire l’uranio. Un anno dopo il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare, l’Iran ha iniziato a revocare i propri impegni, che avevano imposto restrizioni alle sue attività nucleari in cambio dell’allentamento delle sanzioni. Israele e le potenze occidentali accusano l’Iran di perseguire lo sviluppo di armi nucleari, un’accusa che Teheran ha costantemente negato. L’Iran insiste sul fatto che non abbandonerà il proprio programma nucleare, che il ministro degli Esteri Abbas Araghchi ha definito fonte di “orgoglio nazionale”. Araghchi ha osservato che l’arricchimento è attualmente “sospeso” a causa dei danni “gravi” ai siti nucleari causati dagli attacchi statunitensi e israeliani.

Dalla guerra dei 12 giorni, l’Iran ha sospeso la cooperazione con l’AIEA, accusandola di parzialità e di non aver condannato gli attacchi. Da allora gli ispettori hanno lasciato il Paese, ma si prevede che una squadra tecnica tornerà nelle prossime settimane, dopo che l’Iran ha affermato che la futura cooperazione assumerà una “nuova forma”. Israele ha avvertito che potrebbe riprendere gli attacchi se l’Iran ricostruisse le strutture o si muovesse verso una maggiore capacità bellica. La Turchia, essendo una potenza islamico- sunnita ma non araba, ha sempre tentato di avvantaggiarsi fin dai tempi dell’impero ottomano della propria peculiarità e posizione apparentemente neutrale della fitna (faida interna) tra arabi sunniti e persiani, che sono in larga maggioranza musulmani sciiti.

E il presidente-autocrate turco Recep Tayyip Erdogan, ancora una volta si spaccia “ mediatore di pace” tra l’Iran sciita e le potenze sunnite, Arabia Saudita in primis, alleate degli Stati Uniti, come la Turchia del resto, mentre corre con gli Stati Uniti in aiuto della nuova leadership siriana in difficoltà dopo il massacro dei drusi di Sweida da parte delle milizie salafite camuffate da beduini. Si tratta degli ex tagliagole islamisti che facevano parte delle coalizione militare Tahir al Sham comandate da al-Jolani, oggi presidente a interim della Siria con il suo vero nome Ahmad Sharaa. Colui che, con il sostegno dirimente di Erdogan è riuscito a defenestrare l’ex dittatore Bashar Assad e il suo regime. Al Sharaa in persona ha chiesto aiuto ad Ankara affinchè mandi a Damasco addestratori militari e squadre scelte per poter far riconfluire le milizie estremiste islamiche sfuggitegli sotto il controllo dell’esercito regolare .

Sotto cui, non solo Sharaa, ma anche la Turchia e gli Stati Uniti vorrebbero che entro 30 giorni entrassero anche le milizie curde delle Forze Democratiche Siriane ( Sdf) che, tuttavia, non sembrano essere disposte. Per la Turchia la loro sterilizzazione all’interno dell’esercito di Damasco è fondamentale per chiudere definitivamente la partita con i curdi siriani fratelli del PKK, smantellato di recente. I curdi sarebbero disponibili solo se ottenessero uno status autonomo da parte di Damasco. Ma il Sultano si oppone strenuamente all’ipotesi di un’entità autonoma curdo-siriana lungo il confine sud-orientale turco. Intanto ieri a Damasco sono andati in visita 120 investitori sauditi per partecipare a un “Forum sugli investimenti in Siria per il business della ricostruzione. Un evento, questo, senza precedenti.

Si prevede che vengano firmati accordi per 4 miliardi di dollari. Tutto ció è avvenuto con la benedizione dell’amministrazione Trump che vuole portare la Siria nel blocco dei paesi arabi sunniti che hanno aderito agli accordi di Abramo con Israele o che stavano per farlo, come l’Arabia Saudita, che però si è dovuta fermare a causa dello scoppio della guerra a Gaza per cui ha dovuto formalmente prendere le distanze da Tel Aviv. Gli Stati Uniti stessi hanno già firmato accordi con Damasco per gli appalti della ricostruzione e costruzione delle infrastrutture energetiche mentre la Turchia intende costruire in Siria delle basi militari permanenti.

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