Liste d’attesa in sanità: in un anno +51% di rinunce alle cure. Il decreto? Attuato a metà

  • Postato il 11 giugno 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Passano i mesi, ma sul fronte del decreto legge sulle liste d’attesa tutto tace. A distanza di un anno, infatti, il provvedimento presentato in tutta fretta dal governo Meloni all’alba delle scorse elezioni europee è ancora a un punto morto. Secondo quanto riportato dal Dipartimento per il programma di governo, dei sei decreti attuativi previsti dal provvedimento solo tre sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale, lo scorso aprile. Dei rimanenti, uno è scaduto da oltre nove mesi e due non hanno una scadenza definita. In barba al carattere di urgenza del provvedimento che doveva ridurre i lunghissimi tempi d’attesa per visite ed esami, dopo 12 mesi dalla pubblicazione, i cittadini non osservano alcun miglioramento. Le liste d’attesa restano ancora una insormontabile barriera d’accesso all’esercizio di un diritto, quale la cura della propria salute: nel 2024, sei milioni di persone hanno rinunciato a prestazioni sanitarie di cui avevano bisogno, di cui quattro milioni solo a causa delle interminabili liste d’attesa. Il +51% rispetto al 2023.

A riportare l’attenzione sul pantano in cui è rimasto incastrato il decreto legge è ancora una volta la Fondazione Gimbe. Non è la prima volta, infatti, che l’istituzione guidata da Nino Cartabellotta denuncia i ritardi nell’applicazione del provvedimento, spesso insieme ad altre associazioni e organizzazioni di categoria. L’ultima volta, sei mesi fa, il presidente era stato addirittura accusato di diffondere “fake news e strumentalizzazioni dei comunisti” dal senatore di Fratelli d’Italia, Franco Zaffini. “Abbiamo condotto un’analisi indipendente sullo status di attuazione della norma – spiega Cartabellotta – Il nostro obiettivo è informare in maniera costruttiva il dibattito pubblico e ridurre le aspettative irrealistiche dei cittadini, tracciando un confine netto tra realtà e propaganda”. E la realtà è portata alla luce anche dai dati diffusi dall’Istat: nel 2024 una persona su dieci ha rinunciato ad almeno una prestazione sanitaria, il 6,8% a causa delle lunghe liste di attesa e il 5,3% per ragioni economiche.

Si tratta di milioni di persone che dichiarano di aver sacrificato visite specialistiche o esami diagnostici, pur avendone bisogno. E i dati dimostrano che il trend è in crescita. Nel 2024, infatti, il 9,9% della popolazione, circa 5,8 milioni di persone, ha rinunciato ad almeno una prestazione sanitaria, contro il 7,6% del 2023 (4,5 milioni di persone) e il 7% del 2022 (4,1 milioni di persone). Il fenomeno coinvolge l’intero Paese e non presenta particolari differenze territoriali: 9,2% al Nord, 10,7% al Centro e 10,3% al Sud. “La nostra analisi evidenzia che, negli ultimi due anni, il fenomeno della rinuncia alle prestazioni non solo è cresciuto, ma ha incluso fasce di popolazione che prima della pandemia si trovavano in una posizione di vantaggio relativo, come i residenti al Nord e le persone con un livello di istruzione più elevato”, commenta Cartabellotta.

I fattori che pesano di più nella scelta di rinunciare alle prestazioni sono i lunghi tempi d’attesa e le difficoltà economiche. La quota di popolazione che dichiara di aver rinunciato per il primo motivo è passata dal 4,2% del 2022 (2,5 milioni di persone) al 4,5% del 2023 (2,7 milioni di persone), fino a schizzare al 6,8% nel 2024 (4 milioni di persone). Mentre le difficoltà economiche sono state indicate come motivazione principale da 3,1 milioni di persone nel 2024, ovvero il 5,3% della popolazione. Nel 2022 erano il 3,2% (1,9 milioni di persone) e nel 2023 il 4,2% (2,5 milioni di persone). Ma, come sottolinea Gimbe, è proprio l’intreccio di questi due fattori a rendere il fenomeno ancora più allarmante. Questo perché, quando i tempi del pubblico diventano inaccettabili, molte persone sono costrette a rivolgersi al privato. E quando i costi superano la capacità di spesa, la prestazione diventa un lusso. Così, una persona su 10 è costretta a rinunciare. “Ridurre le liste d’attesa non è solo una sfida organizzativa o politica: è l’unico modo per impedire che l’universalismo del sistema sanitario nazionale ceda il passo a una sanità per soli abbienti”, commenta Cartabellotta.

Secondo l’analisi della Fondazione, l’attuazione delle misure del decreto è stata prima bloccata dalla lunga gestazione del decreto attuativo sulla piattaforma nazionale, e poi tenuta in ostaggio dal conflitto istituzionale tra Governo e Regioni sul decreto relativo ai poteri sostitutivi. “Il carattere di urgenza del provvedimento si è rivelato incompatibile con un numero così elevato di decreti attuativi, alcuni tecnicamente complessi, altri politicamente scottanti”, commenta Cartabellotta. In questo caso, il decreto “scottante” è quello sull’esercizio dei poteri sostitutivi. Lo scontro istituzionale, che si è consumato in due mesi di accuse incrociate e rivendicazioni, sembra essersi risolto dopo il confronto del 22 maggio tra la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e Massimiliano Fedriga. Il presidente del Friuli-Venezia Giulia e della Conferenza delle regioni ha incontrato il ministro della Salute, Orazio Schillaci, il 28 maggio, per finalizzare il testo del decreto. “Al di là delle dichiarazioni pubbliche di ritrovata sintonia istituzionale – commenta Cartabellotta – al momento non risulta ancora raggiunta l’intesa tra Governo e Regioni sul decreto attuativo”. “Ma soprattutto – continua – amareggia constatare che, su un tema che lede un diritto costituzionale, lo scontro frontale abbia preso il sopravvento sulla leale collaborazione tra istituzioni, rendendo evanescente il supremo principio di tutelare la salute dei cittadini. Nel frattempo, milioni di persone continuano ad attendere. O peggio, rinunciano alle prestazioni sanitarie” conclude.

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