L’Italia che non vediamo: una decade di governi letta con gli occhi della cultura mafiosa

  • Postato il 21 novembre 2025
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  • Di Paese Italia Press
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di Francesco Mazzarella

Negli ultimi dieci anni, l’Italia ha cambiato governi con un ritmo che assomiglia più ai cicli di una crisi permanente che a un percorso politico lineare: Renzi, Gentiloni, Conte I, Conte II, Draghi, Meloni. Sei esecutivi, ognuno con un proprio vocabolario, un proprio stile, una propria promessa di rottura, continuità o rinascita. Eppure, al di sotto delle scelte legislative, delle riforme annunciate e dei conflitti parlamentari, esiste un filo che attraversa indisturbato ogni stagione: quello di una cultura mafiosa che non ha bisogno della mafia per esistere, perché è più sottile, più quotidiana, più normale della mafia stessa. Una presenza silenziosa che non si manifesta solo nei territori tradizionalmente sensibili, ma che abita anche le pieghe dell’amministrazione centrale, nei rapporti tra economia e politica, nelle dinamiche interne ai partiti, nei ruoli di responsabilità che non cambiano mai davvero volto.

La mafia operativa è un’organizzazione: strutturata, violenta, gerarchica, condannata dal codice penale e perseguita da magistratura e forze dell’ordine. La cultura mafiosa, invece, non ha articoli né codici: è un’abitudine, un modo di guardare il potere. Non spara, ma sposta. Non minaccia, ma orienta. Non usa la forza, ma il favore. È quella mentalità che porta a pensare che le relazioni contino più delle regole, che la fedeltà sia un merito, che la trasparenza sia un problema da aggirare e non una tutela da difendere. È una forma di compromesso invisibile che attraversa Nord e Sud, grandi città e piccoli comuni, ministeri e aziende di quartiere, ed è così radicata da diventare spesso impercettibile: un modo “normale” di gestire il potere.

E quando si indossano gli “occhiali” della cultura mafiosa, ciò che accade nella politica italiana cambia di prospettiva. La vicenda ANAS – con l’inchiesta “Dama Nera” e le successive verifiche di ANAC e Corte dei Conti – mostra con chiarezza non la presenza di un clan, ma la normalizzazione del favore: appalti pilotati, relazioni informali che decidono più dei bandi, una gestione del denaro pubblico trattata come una risorsa privata da distribuire secondo convenienze. È la fotografia di un sistema in cui la legge esiste, ma viene vissuta come un ostacolo; un sistema in cui la discrezionalità diventa più potente della programmazione. E quando la discrezionalità diventa pratica condivisa, i governi possono cambiare volto, ma raramente cambiano davvero metodo.

Lo stesso si vede nel Sistema Montante, un caso che ha segnato profondamente la fiducia degli italiani. La Corte d’Appello di Caltanissetta ha descritto un network di relazioni, pressioni, controlli e dossier che operava all’interno delle istituzioni, costruendo una forma di potere parallelo. Non mafia nel senso giuridico, ma una mentalità che ne imita i meccanismi: fedeltà, scambio, segretezza. Il paradosso è che Montante incarnava l’antimafia ufficiale, dimostrando quanto profondamente la cultura mafiosa possa infiltrare anche i luoghi che dovrebbero esserne il baluardo. Non era necessario minacciare: bastava esserci, intrecciarsi, presidiare, controllare. In fondo, una cultura mafiosa non si impone: si insinua. Non entra con la forza, ma con la fiducia malata di chi crede di proteggere un sistema, mentre lo sta deformando.

Tra il 2021 e il 2024, le relazioni della DIA hanno ripetuto che il PNRR è un terreno fertile per infiltrazioni. Ma il punto più rivelatore non è la capacità delle mafie operative di avvicinarsi ai fondi: è la debolezza della macchina amministrativa, spesso appesantita da pratiche vecchie, gare scritte male, controlli lenti, nomine poco trasparenti. È qui che la cultura mafiosa prospera: non nella violenza, ma nella normalità. Nella frase “si è sempre fatto così”, nella burocrazia che rallenta, nei passaggi informali che diventano fondamentali quanto quelli ufficiali. La cultura mafiosa, in fondo, non chiede spazio: lo trova. Lo trova nelle zone grigie, nei non detti, nella mancanza di responsabilità diffusa che permette a chiunque di muoversi senza mai esporsi davvero.

E quando questo sistema si ripete governo dopo governo, decade dopo decade, diventa quasi naturale non accorgersi più dei segnali: l’abitudine prende il posto dell’analisi. È questo il vero rischio. Perché la cultura mafiosa non ha bisogno di creare scandali per funzionare: le basta la quotidianità.

Uno dei campi in cui la cultura mafiosa emerge con maggiore chiarezza è quello delle nomine pubbliche. Openpolis, AGCOM e Antitrust hanno documentato negli ultimi dieci anni una continuità impressionante: i vertici delle partecipate, delle fondazioni culturali, delle ASL, degli enti lirici e della RAI vengono spesso scelti con criteri che privilegiano l’appartenenza politica o relazionale più che il merito o la visione. È un fenomeno che attraversa governi di ogni colore, dimostrando che non è una questione ideologica, ma culturale. L’alternanza politica non modifica il metodo: cambia solo i beneficiari.

Questa logica di “occupazione degli spazi” non viola necessariamente la legge, ma la piega dolcemente. È la cultura mafiosa applicata al potere: includo chi mi è fedele, escludo chi non garantisce allineamento, costruisco una rete di sostenibilità politica che mi assicura protezione. Non c’è violenza, non c’è paura: c’è convenienza. E la convenienza è una delle forme più raffinate di controllo, perché produce gratitudine, dipendenza, silenzi. Un sistema che cresce nelle pieghe dell’amministrazione, senza mai dichiararsi come tale.

Il caso Consip è emblematico. Le indagini su pressioni, raccomandazioni, contatti impropri e fughe di notizie non hanno delineato un sistema mafioso, ma un ambiente in cui le relazioni personali pesano più delle procedure. Un ambiente dove la frase “ti posso aiutare” diventa una moneta di scambio e dove lo Stato smette di essere neutro. Il punto non è che i governi abbiano tollerato l’illegalità: è che hanno continuato a muoversi dentro un ecosistema in cui il confine tra opportunità e opportunismo è sempre troppo sottile. La trasparenza, pur esistendo, rimane spesso un adempimento formale più che un valore.

La Sicilia, in questo senso, è stata uno specchio nazionale. Le relazioni della Corte dei Conti regionale parlano di partecipate trasformate in strumenti di consenso, di dirigenti nominati più per appartenenza che per competenza, di fondi europei gestiti secondo equilibri politici. Non si tratta quasi mai di reati, ma quasi sempre di cultura: “se non sei dentro, resti fuori”, “chi comanda decide”, “questo posto spetta a noi”. È un modo di governare che si tramanda senza che nessuno lo dichiari, perché tutti lo conoscono e pochi lo contestano apertamente.

Neppure il mondo dell’informazione è stato immune. Le inchieste giornalistiche e le relazioni AGCOM hanno messo in luce un sistema di pressioni e influenze sulle nomine RAI che non impone la censura, ma orienta. Non decide cosa si può dire, ma cosa è meglio non dire. Non serve un ordine diretto: basta un clima, un contesto, un equilibrio che non va disturbato. In questo senso, la cultura mafiosa vive anche nel linguaggio pubblico, nella capacità di spostare il baricentro della narrazione senza mai dichiararlo.

E il settore culturale – teatri, fondazioni, festival, circuiti ministeriali – ha conosciuto dinamiche simili. In molte realtà, la scelta dei direttori non premia l’innovazione, ma le appartenenze. Gli enti che provano a rompere questi meccanismi si trovano spesso isolati, penalizzati, esclusi dai finanziamenti più importanti o relegati a bandi secondari. La cultura, invece di essere terreno di libertà, diventa terreno di scambio. E dove la cultura diventa terreno di conquista, la cultura mafiosa si insinua naturalmente: perché il potere ha bisogno di consenso, e il consenso ha bisogno di strumenti.

Negli ultimi dieci anni è così emersa con chiarezza una doppia Italia: quella che parla di trasparenza e quella che vive di relazioni distorte. Una parte del Paese che scrive regole e un’altra parte che le interpreta. E quando l’interpretazione diventa prassi, quando l’eccezione diventa normalità, allora la cultura mafiosa non è più un rischio: è una struttura. Non si vede, non si tocca, non si nomina, ma plasma i comportamenti, orienta le scelte, condiziona il futuro.

È questa la sua forza e, allo stesso tempo, il suo inganno più grande: non si presenta mai come un problema, ma come un’abitudine. E le abitudini, quando diventano collettive, sono le più difficili da scalfire.

Ma raccontare solo questa parte sarebbe ingiusto, e soprattutto incompleto. Perché gli ultimi dieci anni non sono stati soltanto la storia di ciò che non funziona: sono stati anche la storia di un Paese che reagisce. Lentamente, faticosamente, ma reagisce. La digitalizzazione degli appalti pubblici, il ruolo crescente dell’ANAC, l’apertura dei dati, le sentenze coraggiose, le inchieste giornalistiche che hanno scoperchiato sistemi di potere invisibili, la nascita di reti di giovani amministratori che rifiutano la logica del favore, tutto questo dice che l’Italia non è rassegnata. Non è un Paese immobile, né piegato, ma un Paese che continua a cercare strade nuove, anche quando sembra più semplice arrendersi alla sfiducia.

La cultura mafiosa vive nell’ombra, ma ogni gesto di trasparenza è un raggio di luce. Ogni concorso pubblico digitale, ogni nomina tracciabile, ogni bando aperto senza scorciatoie, ogni giornalista che indaga senza paura, ogni cittadino che chiede accesso agli atti, ogni docente che spiega ai ragazzi che la scorciatoia non è libertà, ma dipendenza: tutto questo scalfisce lentamente un sistema che sembrava immutabile. Ed è proprio in queste crepe che penetrano i semi del cambiamento, perché la cultura mafiosa può essere forte, ma è vulnerabile davanti alla verità e alla responsabilità condivisa.

Negli ultimi anni, alcune amministrazioni locali hanno introdotto regolamenti più trasparenti per gli incarichi pubblici, hanno pubblicato online i criteri di valutazione, hanno coinvolto cittadini e associazioni nella supervisione dei progetti. Piccoli passi, forse, ma capaci di creare anticorpi. Allo stesso tempo, molte scuole hanno inserito percorsi di educazione civica e legalità che non sono più lezioni teoriche, ma laboratori di partecipazione, dove i ragazzi imparano a riconoscere il confine sottile tra ciò che è giusto e ciò che “conviene”.

Le università e i centri di ricerca hanno moltiplicato gli studi sull’etica pubblica e sulla trasparenza amministrativa. Non è un caso che in molte regioni del Sud – quelle più ferite dalla cultura mafiosa – sia nata una generazione nuova di amministratori locali: donne, giovani, professionisti che hanno scelto di rimanere, di esporsi, di costruire comunità che non vogliono più pagare il prezzo dell’ambiguità. Non sono eroi solitari, ma parti vive di un’Italia che prova a rifondarsi dal basso.

Le associazioni antimafia, le reti civiche, i movimenti studenteschi, le parrocchie, i teatri e i gruppi culturali hanno aperto spazi di confronto e dialogo dove la parola torna a essere uno strumento di liberazione, non un’arma di potere. In questi luoghi si impara che la legalità non è una bandiera da sventolare, ma un modo di respirare insieme. E che la cultura della trasparenza nasce nella semplicità delle relazioni quotidiane: nel dire un “no” quando sembra difficile, nel difendere un principio quando sarebbe più comodo tacerlo.

La sconfitta della cultura mafiosa non avviene nei tribunali – lì si colpisce la mafia operativa – ma nelle relazioni quotidiane. Avviene quando una comunità sceglie di essere più onesta del contesto in cui vive. Avviene quando una città decide di non chiedere più “a chi devo rivolgermi?”, ma “dove lo trovo scritto?”. Avviene quando le persone smettono di accettare l’ingiustizia come normalità e iniziano a riconoscere il valore profondo di ogni piccolo atto di coerenza.

E allora la speranza non è un’illusione: è una responsabilità. Non nasce da un governo, perché nessun governo da solo può cambiare una cultura. Nasce dalle persone che, giorno dopo giorno, sfidano un’abitudine antica scegliendo la via più lenta, più faticosa, ma più vera: quella della trasparenza. Nasce nelle comunità che ricostruiscono fiducia, nella politica che impara a spiegare e non solo a decidere, nei cittadini che scoprono che partecipare non è un fastidio ma un potere. Nasce negli sguardi che si rialzano, nelle mani che si tendono, nei progetti che, finalmente, parlano al futuro e non solo al presente.

La luce, alla fine, non arriva come un cambiamento improvviso. Arriva come un chiarore che cresce piano, come una coscienza che si risveglia, come un Paese che scopre che la verità non è un rischio, ma una casa. E forse questi dieci anni, così fragili e così intensi, ci stanno dicendo proprio questo: che la nostra forza non sta nel negare l’ombra, ma nel scegliere di attraversarla insieme, fino a costruire una cultura nuova, capace di spegnere – lentamente ma definitivamente – ciò che ci ha feriti per generazioni. Perché la speranza, quando nasce dal coraggio, diventa un progetto. E un Paese che ritrova il coraggio può ritrovare anche il futuro, passo dopo passo, relazione dopo relazione.

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