“L’Italia non è più sexy, il turismo è malato di algoritmi e selfie: si dovrebbe prenotare con sette anni d’anticipo per visitarla”: l’intervista a Michil Costa
- Postato il 25 novembre 2025
- Viaggi
- Di Il Fatto Quotidiano
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Michil Costa è cortese, attento, elegante. Sembra essere amato da tutti. Lo capisci entrando con lui negli spazi dei suoi hotel: in cucina, in sala, tra i salotti della hall. Tutti lo salutano: “Buongiorno, signor Michil”, “Buonasera, signor Michil”. E lui ricambia, col sorriso e uno scambio di parole. Una donna che lava i piatti si ferma vedendolo entrare in cucina, lo guarda, si tocca il cuore. È un gesto semplice, ma traduce la gratitudine per la dignità che lui sa dare anche al lavoro più umile. In questa normalità si vede la sua idea di ospitalità: stare dentro le cose, non solo dietro una scrivania a impartire direttive.
Nato a Corvara nel 1961 Michil Costa è cresciuto tra tavoli, valigie e montagne. Figlio di albergatori ha trasformato quel mestiere in una visione culturale. Per lui l’ospitalità non è un servizio, ma piuttosto un gesto civile. Oggi insieme alla sua famiglia guida nelle Dolomiti l’Hotel La Perla di Corvara, il Berghotel Ladinia e il Bio Alpine Hotel Gran Fodà; in Toscana l’Hotel La Posta di Bagno Vignoni. È presidente della Maratona della Dolomiti, evento simbolo di un turismo lento e rispettoso dei luoghi. Nel 2007 ha fondato la Costa Family Foundation, nata per trasformare l’ospitalità in atto di responsabilità concreta verso le persone, i luoghi e le comunità più vulnerabili. La Fondazione si occupa di sviluppare, in Italia e nel mondo, progetti sull’educazione, la salute e l’ambiente con un approccio trasparente e di lungo periodo. È autore di FuTurismo. Un accorato appello contro la monocultura turistica (Raetia, 2025), libro alla seconda edizione, con prefazione di Massimo Cacciari, che propone un modello alternativo di sviluppo del turismo fondato sulla responsabilità dell’ospitalità e sul legame con il territorio.
Michil Costa, lei dice che essere albergatore è un atto culturale. È possibile?
Dipende dal tipo di impresa. A me piace un modello di imprenditoria che mi faccia stare bene e che faccia del bene anche ai nostri collaboratori. Mi interessa più fare le cose fatte bene con la certezza dei valori che tentiamo di mettere in atto ogni giorno piuttosto che guadagnare tanti soldi.
Da dove nasce quest’idea di ospitalità?
Dai greci. L’ospitalità per loro era sacra, era xenia: un dovere morale verso lo straniero. Poi dall’umanesimo, che ha rimesso l’uomo al centro (anche se ora è troppo al centro e pensa di essere l’unico essere vivente sul Pianeta Terra). Mio padre mi ha insegnato che un tempo si offriva un tetto, un pane, un calice di vino. Era un gesto di civiltà, non di business. L’ospitalità è politica perché riguarda come trattiamo l’altro, come costruiamo comunità. Se fatta bene, inoltre, diventa anche economicamente sostenibile.
Che cosa è stato perso di quest’ospitalità?
Abbiamo perso la gratuità del gesto. L’industria turistica ha trasformato tutto in prodotto, in servizio standardizzato. Abbiamo perso il tempo dell’incontro, la curiosità verso chi arriva. Oggi contiamo il numero di notti, non più storie. Ottimizziamo margini, non relazioni. L’ospitalità originaria era disinteressata. Accoglievi perché era giusto, non perché dovevi riempire camere o aumentare l’EBITDA.
Lei parla di turismo dominato dagli algoritmi.
Oggi non scegliamo più, bensì veniamo scelti. Gli algoritmi decidono cosa vediamo, dove andiamo, cosa ci piace prima ancora che lo scopriamo. Il viaggio diventa prevedibile, omologato. Tutti fotografano lo stesso tramonto, mangiano nello stesso ristorante “consigliato”. Per restituire libertà serve coraggio: spegnere il telefono, perdersi, fidarsi del caso, parlare con le persone. La sorpresa nasce dall’imprevisto, non dalla lista delle “migliori dieci cose da fare”.
L’overtourism è un problema tanto in Alta Badia quanto in Val d’Orcia.
Serve un patto chiaro tra comunità e visitatori. Chi viene deve capire che entra in uno spazio vivo, non in un parco tematico. E chi accoglie deve avere il coraggio di dire basta quando è troppo. Servono numeri chiusi, regole condivise, stagionalità rispettate. L’identità si tutela quando chi vive in un luogo non viene schiacciato da chi lo attraversa. L’accoglienza vera non è quantità. È reciprocità.
Ha proposto di prenotare l’Italia con sette anni d’anticipo. È solo una provocazione?
È una provocazione con una verità dentro. Se per andare in Giappone o in certi ristoranti stellati prenoti con un anno d’anticipo perché l’Italia deve essere sempre disponibile, sempre facile? Sette anni è esagerato, certo, ma l’idea è quella di restituire valore attraverso il tempo. Quando una cosa è troppo accessibile, perde significato. Non voglio escludere nessuno, voglio che chi viene a visitare l’Italia sia davvero pronto a incontrare il nostro Paese, non solo a consumarlo.
Ha detto anche che oggi l’Italia non è più sexy.
Sì. Quando tutto è a portata di clic, tutto perde mistero. L’Italia è bellissima, ma è diventata scontata. Arrivano 60 milioni di turisti l’anno, molti fanno il mordi e fuggi. Non c’è più desiderio, solo consumo. La bellezza va conquistata, va preparata, va meritata. Non per elitismo, ma perché così la apprezzi davvero. Per vedere l’Isola di Montecristo devi prenotare con mesi d’anticipo e ci sono numeri chiusi. Per andare al concerto di Capodanno di Vienna “fai la lotteria” e aspetti. Quando finalmente ci arrivi, ha un altro valore.
Oggi una foto del viaggio conta più del viaggio stesso?
Sì. E così si perde tutto. Si perde la profondità, l’emozione vera, la trasformazione. La foto è un simulacro, non un’esperienza. Quando cerchi solo lo scatto perfetto non guardi davvero, non ascolti, non senti. La bellezza ha bisogno di tempo, di silenzio, di presenza. L’incontro con la cultura è fatica, è confronto, è mettersi in discussione. La foto è istantanea e superficiale. Torni a casa con la gallery piena e il cuore vuoto.
Qual è la prima regola di un albergatore?
Trattare ogni ospite come vorresti essere trattato tu quando sei straniero, stanco, lontano da casa. È una regola semplice ma dimenticata. Prima di pensare ai servizi, alle stelle, al fatturato, c’è la reciprocità. Mettersi nei panni di chi arriva. Il resto viene dopo, ma senza questa base non c’è vera accoglienza.
Lei ha studiato filosofia buddista.
Mi ha dato una bussola etica: fare impresa con consapevolezza. Il buddismo mi ha insegnato a guardare oltre il profitto immediato, a costruire qualcosa che abbia senso nel lungo periodo. Non è solo meditazione o filosofia astratta, è un modo concreto di prendere decisioni, più orientato ai valori che al mercato.
Lei parla spesso di conduzione familiare. Ma come si preserva questa misura quando il suo gruppo cresce e l’Hotel La Posta raggiunge le cinque stelle?
È la sfida più grande. Le cinque stelle sono un riconoscimento, non un traguardo. La misura si preserva mantenendo una visione chiara: crescere solo se la qualità rimane intatta, altrimenti fermarsi. Significa scegliere i collaboratori giusti, dare loro fiducia e responsabilità, costruire una cultura aziendale solida. Non è facile ma è bello. E questo è l’unico modo per non tradire l’idea originaria di quello che vuoi essere.
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