Lo scandalo Bova e il narcisismo digitale: quando il ricatto diventa intrattenimento

  • Postato il 20 agosto 2025
  • Di Il Foglio
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Lo scandalo Bova e il narcisismo digitale: quando il ricatto diventa intrattenimento

Potremmo chiuderla subito così: storia di un ricatto, spregevole, come tutti i ricatti. Se non fosse per l’azione manipolatoria della notizia di un tradimento, (vero, presunto, parzialmente consumato?), in modalità contagio. Ai caselli dello scandalo nessun pedaggio: via libera a congetture, accuse, sentenze becere e sommarie intorno a un caso in fondo così comune, ordinario quasi, quindi teoricamente privo del fascino virale dello scandalo stesso. C’è qualcosa di particolarmente immorale in questa storia, al di là della valenza giudiziaria, da farle compiere un salto di qualità oppure è solo asfalto per i posteggiatori del narcisismo? Di certo dentro c’è tutto: sfumature di sesso, eccitazione, ma anche disprezzo, pietà, dolore. Tanta roba, frullata alla perfezione, un concentrato di sorprese nel quale la fantasia nuota libera.

Il primo dei cinque motivi – secondo la psicologa Susan Kolon – per cui la gente ama gli scandali è: ”Il piacere vicario nel violare le regole altrui. La trasgressione è eccitante. Ogni persona è tentata di infrangere regole e confini, ma la maggior parte resiste. La persona scandalosa ha ceduto alla tentazione”. Basta per attrarre così morbosamente? E’ dunque il potenziale sconfinamento nell’Altro a vampirizzare il pubblico scontento? Chat, registrazioni telefoniche, foto: un’opulenza di dettagli che genera fascinazione e permette di muoversi lungo il confine tra realtà e congetture. Perché anche di questo si tratta. Perché la verità – in fondo – rischia persino essere marginale, interessa invece prolungare il razzolare tra buoni e cattivi, tra vittima/e e carnefice/i, puntare, sparare, fuoco. Salvo poi cambiare colpevole. Eppure la realtà dovrebbe raccontarsi da sé, ma sarebbe meno eccitante per chi sbava per conquistare uno spazio di condivisione il più possibile ampio, una palestra nella quale esercitare i muscoli del pettegolezzo, il vizio più antico del mondo.  E allora ecco una pioggia di like a commenti di perforante stupidità.

Byung-chul Han sostiene che: ”Il like è il grado zero della percezione”. Pioggia di like, dunque iperattività, in una dimensione che però risulta anestetica. Metamorfosi del linguaggio in una società misologa, società chiusa al pensiero, al ragionamento, aperta all’ignoranza, alla banalità. Posto dunque sono. E se lo spunto è vivo, come il caso Bova, mi faccio riconoscere, divento elemento di un parto aggregativo globale, che però inquina il concetto di comunità e disegna una società fatta di individui connessi ma isolati, in un processo di decadente atomizzazione. E in questa regressiva mutazione antropologica gli attori in parte sfoderano un linguaggio minimo, povero, banale. In Rete non serve conoscenza: per maneggiare il gossip non è necessario saccheggiare il vocabolario, e neppure sforzarsi di pensare. Ricordate Marcuse? “Quando il linguaggio si impoverisce il pensiero si restringe”. Fino a evaporare, mi vien voglia di dire. Il passaggio dal pensiero alla parola scritta, oggi, avrebbe bisogno di uno stadio intermedio, nel quale segregare gli errori e buttare via la chiave: dovrebbe essere la “riflessione perfetta” in grado di bonificare il campo delle cazzate e aprire a una condivisione seria, piena, matura. Ma condividere, oggi, troppo spesso è solo la messa a disposizione collettiva di uno sfogo egoriferito, che però indossa il vestito migliore del veleno virale.

Fabrizio Corona, facendo riferimento al materiale scottante in suo possesso, scrive ai follower del suo canale Telegram: ”Condividetelo con i vostri amici, raga, così normalizziamo questo vip”. E allora ecco la Rete diventare cloaca, flusso potente quanto maldestro di interazioni, in un engagement sfrenato che polverizza un concetto semplice: chi comunica qualcosa attraverso la Rete si assume le responsabilità di ciò che dice. E’ il cuore della Legge di Postel, firmata, appunto, da Jon Postel, illuminato studioso e fenomenale indagatore di internet, che sezionando il corpo vivo della Rete ha scritto: ”Be conservative in what you do, be liberal in what you accept from others”. La prima parte, negli anni, è stata riformulata così: ”Sii prudente in ciò che invii verso l’esterno…”. Ovvero: muoversi in Rete richiede precisione, rigore, rispetto in ciò che si propone agli altri. Invece nell’occasione sono stati liberati audio privati, rese pubbliche chat, per avvelenare la scena, usando gli inequivocabili toni dell’estorsione. Nelle periferie del meschino si muovono, anche per pochi spiccioli, i fuoriclasse dello squallore. “Non bisogna mai farsi ricattare dalla stupidità altrui” sosteneva Eco. E Bova ci ha provato, replicando alle chiare, reiterate intimidazioni del suo interlocutore: ”E’ un reato quello che stai facendo e io non cedo ad alcun ricatto”.

Le indagini proseguono scuotendo l’albero dei dettagli mentre l’attenzione sul caso vibra di una morbosità mai stanca, allenata a giudicare, al guinzaglio della seduzione del futile. Siamo da tempo in una società che siede quotidianamente alla tavola del più efferato cinismo e che spinge le persone a fare di tutto per ottenere visibilità.  E’ l’ulteriore (e più pericoloso) deragliamento della “vetrinizzazione sociale” di cui scrive (assai bene) Vanni Codeluppi. Vite da esibire (le proprie) e – aggiungo io – altre da commentare (quelle degli altri). Ogni interazione è una rappresentazione: ha ragione Erwin Goffman che ha analizzato la vita quotidiana attraverso i canoni del teatro. Lo spazio scenico è diviso tra ribalta e retroscena. Purtroppo oggi – e il caso Bova lo dimostra – ribalta e retroscena sono sulle medesime assi digitali (il fatto, i commenti, i follower, i like) e chi si muove sul palco si ritiene autorizzato a esprimere al meglio il proprio narcisismo. E’ la celebrazione della vanità, nella migliore delle ipotesi. E’ la “fear of missing out”, la paura di essere tagliati fuori se non si è costantemente connessi e reattivi, in quella peggiore. Bobbio userebbe la clava critica e parlerebbe, ancora, di società “putrefatta e moralmente fiacca”. E’ vero, si riferiva, più di venti anni fa o giù di lì, alla politica, ma suonano così bene oggi, in questo scellerato contesto digitale, le sue parole. E in questa società che assiste senza decoro al suo disfacimento il diritto alla privacy viene malmenato, deriso, ridotto al silenzio. Non deve accadere, non possiamo accettarlo. Serve un sussulto collettivo, una corale indignazione. Altrimenti rischia di avere ragione Jean Baudrillard: ”Né attori né spettatori, siamo solo dei voyeur senza illusioni”.

                                             

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Il Foglio

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