L’ombrello americano nell’Indo-Mediterraneo sta proteggendo l’Europa dagli Houthi

  • Postato il 28 aprile 2025
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  • Di Formiche
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Dal 15 marzo, gli Stati Uniti, attraverso il Comando Centrale (CentCom), stanno conducendo una campagna aerea intensiva contro il movimento Houthi in Yemen, con l’obiettivo di ripristinare la libertà di navigazione nel Mar Rosso e riaffermare la deterrenza americana nella regione. La missione, denominata “Operation Rough Rider”, si è sviluppata attraverso una strategia mirata a colpire le capacità operative e finanziarie degli Houthi, agendo su molteplici livelli.

Finora, la campagna ha colpito oltre ottocento obiettivi, distruggendo infrastrutture fondamentali come centri di comando e controllo, sistemi di difesa aerea, depositi di armi avanzate e impianti di produzione di missili e droni. Sono stati eliminati anche numerosi combattenti e comandanti di rilievo, tra cui specialisti nella gestione di missili balistici e di velivoli senza pilota — si parla di diverse centinaia di vittime tra i militanti, ma anche diverse tra civili, complicando la dimensione politico-narrativa a livello locale e interno.

Il Pentagono fa sapere che dai dati raccolti le azioni avrebbero prodotto una riduzione sensibile delle capacità offensive degli Houthi: i lanci di missili balistici sono diminuiti del 69%, mentre gli attacchi condotti con droni one-way si sono ridotti del 55%. Parallelamente, la distruzione delle capacità operative del porto di Ras Isa — con un attacco le cui immagini spettacolari hanno inondato i social network — sta ostacolando in modo significativo le entrate finanziarie degli Houthi, minando una delle principali fonti di finanziamento per le loro attività.

La campagna è stata condotta con un robusto dispositivo militare, che comprende due Carrier Strike Group — quello della USS Harry STruman e quello della USS Carl Vinson, mossa dall’Indo-Pacifico per aumentare il ritmo degli attacchi — e testimonia il forte impegno operativo delle forze armate statunitensi, lodate per la loro professionalità ed efficacia dal comandante del CentCom, il generale Michael Erik Kurilla, salito ieri a bordo della Vinson per un punto operativo e simbolico sulla missione. Tuttavia, nonostante i danni inflitti e la riduzione della frequenza degli attacchi, gli Houthi hanno mantenuto una certa capacità offensiva, continuando a minacciare le rotte geoeconomiche dell’Indo-Mediterraneo — che hanno destabilizzato da oltre un anno e mezzo — e lanciando occasionali missili verso Israele (quasi sempre intercettati senza particolari danni).

Accanto ai risultati militari, emergono però anche delle criticità. La resilienza degli Houthi, nonostante le perdite subite, suggerisce che il gruppo conserva una volontà combattiva sostenuta anche dal continuo supporto iraniano. A questo si aggiunge il costo umano della campagna: dati delle Nazioni Unite e di osservatori indipendenti registrano un aumento significativo delle vittime civili a partire da marzo, una dinamica che, pur se non voluta, rischia di alimentare tensioni internazionali e complicare ulteriormente il quadro politico.

In questo contesto, si fanno strada due possibili linee d’azione: da un lato, alcuni ambienti statunitensi spingono per proseguire e intensificare la pressione militare; dall’altro, mediatori regionali come Oman e Qatar, insieme alle Nazioni Unite, vorrebbero promuovere una soluzione diplomatica, basata sul tentativo di rilanciare un cessate il fuoco e un processo politico inclusivo. L’ipotesi di sostenere un’operazione terrestre locale contro gli Houthi, ad esempio per riprendere il porto strategico di Hodeidah, è oggetto di discussione, ma incontra ostacoli rilevanti: le forze yemenite anti-Houthi appaiono frammentate, logorate da rivalità interne e logisticamente impreparate a sostenere un’offensiva su vasta scala.

Inoltre, il contesto regionale rimane delicato. Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, pur contrari al dominio Houthi, sono riluttanti a riaccendere il conflitto. Temono per gli equilibri interni faticosamente riguadagnati dopo che per anni gli Houthi hanno colpito i loro territori, creando un clima di insicurezza che mal si concilia con gli interessi strategici di Riad e Abu Dhabi. Le due capitali del Golfo che hanno cercato di guidare la controffensiva con cui il governo amico di Sanaa non è mai riuscito, in dieci anni di guerra civile, a fermare gli Houthi, sono entrati in una nuova fase.

Se prima lo Yemen era uno dei terreni di scontro proxy con l’Iran, ora potrebbero anche accettare spartizioni di poteri, se le ritenessero vantaggiose, dato il miglioramento dei rapporti diplomatici con Teheran — e sempre sulla scia della priorità assegnata ai rispettivi programmi di sviluppo economico. In quest’ottica, l’indebolimento delle capacità missilistiche degli Houthi a seguito della campagna americana apre ulteriori spiragli negoziali, perché i militanti yemeniti (e il dante causa iraniano) si presenterebbe al tavolo meno capace militarmente — all’opposto di qualche mese, quando sembravano inarrestabili. Da questo punto di vista, continuare la campagna può essere utile per erodere ulteriormente il terreno — a patto forse di non stressare troppo il contesto, per non far sembrare l’Iran troppo indebolito, considerando che Teheran sta anche negoziando con gli Usa sul proprio programma nucleare.

In conclusione, l’Operation Rough Rider ha ottenuto per risultati tattici rilevanti, degradando le capacità offensive e finanziarie degli Houthi e riaffermando la presenza militare americana nella regione come punto di bilanciamento inequivocabile. Anche perché parallelamente alle attività offensive degli Stati Uniti, l’Unione Europea ha continuato a operare con la missione “Aspides”, di natura prettamente difensiva. Ma sebbene Aspides abbia fornito protezione e intercettato vari missili e droni diretti contro le navi europee, ha inciso in modo molto meno significativo sulla deterrenza complessiva contro gli Houthi.

Questo aspetto mette in luce una certa disparità nei risultati tra le due missioni: se la campagna offensiva americana ha effettivamente eroso le capacità degli Houthi, le operazioni difensive europee non hanno raggiunto lo stesso livello di impatto. In questo contesto, le recenti discussioni emerse pubblicamente dopo lo scoop dell’Atlantic sulla chat su Signal, in cui la leadership statunitense esprimeva reticenza a difendere nuovamente l’Europa, ma si sentiva obbligata a farlo, assumono una luce differente. I risultati forniti dal Pentagono dimostrano che, se la campagna contro gli Houthi sta avendo effetti tangibili, è grazie agli attacchi mirati degli Stati Uniti, mentre la missione difensiva europea, pur importante per la protezione delle navi europee, non ha inciso in modo altrettanto determinante. Ossia giustificata i rimbrotti di chi nell’amministrazione Trump chiedeva all’Europa di fare di più, dato che quanto accade coinvolge il bacino di proiezione geopolitica e securitaria dell’Unione.

“Penso che stiamo commettendo un errore”, scriveva il vicepresidente JD Vance, riguardo al timido coinvolgimento europeo, aggiungendo che mentre solo il 3% del commercio statunitense passa attraverso il canale di Suez, e dunque dal Mar Rosso destabilizzato dagli Houthi, quella percentuale cresce al 40 per il commercio europeo.

In questo modo, va anche detto che la situazione nel Mar Rosso smentisce le preoccupazioni emerse dal sondaggio Euromedia che indicava crescenti dubbi tra gli italiani sulla volontà americana di proteggere l’Europa, e conferma l’impegno concreto degli Stati Uniti nel garantire la sicurezza marittima e la stabilità globale e del Vecchio Continente. Tema sul tavolo dei futuri negoziati commerciali e più in generale dei rapporti transatlantici — con l’Europa da anni chiamata dalle amministrazioni statunitensi (non solo da Donald Trump) a fare di più.

(Foto: X, @CENTCOM)

Autore
Formiche

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