L’Ue può ancora contenere l’impatto dei dazi con riallocazioni e mercato unico. Scrive Scandizzo

  • Postato il 1 agosto 2025
  • Economia
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L’accordo commerciale Usa-Ue annunciato il 27 luglio scorso, e ora confermato, ha fissato una tariffa generale del 15% per la maggior parte dei prodotti dell’Ue per l’esportazione negli Stati Uniti, escludendo alcuni articoli strategicamente sensibili come parti di aeromobili, farmaci generici e macchinari per semiconduttori. Anche se presentato in sottigliezze diplomatiche come un esercizio di “riequilibrio”, l’accordo ha rappresentato una svolta radicale rispetto alla politica commerciale cooperativa.

Significativamente, l’Ue ha anche assunto un impegno a non applicare contromisure tariffarie o commerciali, ma anzi ad aumentare gli acquisti di prodotti statunitensi legati all’energia e alla difesa. Questo approccio a senso unico ha creato una situazione improbabile, ma interessante dal punto di vista scientifico, come un esperimento naturale in cui si può calcolare il livello della cosiddetta tariffa ottimale. Nel calcolare i costi e i benefici di questo accordo non sono rilevanti i prezzi dei prodotti importati o esportati, ma il loro rapporto, che va sotto il nome tecnico di ragioni di scambio.

L’imposizione di tariffe ha per scopo un miglioramento della competitività del Paese che le impone, attraverso il miglioramento delle ragioni di scambio, interpretabili come una sorta di rapporto costi/benefici. il modello economico di analisi considera sia la differenza tra le ragioni di scambio dei prezzi (Price Terms of Trade o Ptt) sia quelle dei redditi (Income Terms of trade o Itt). Le Ptt rilevano il rapporto tra i prezzi medi pagati dagli Usa per le importazioni europee e i prezzi medi ricevuti per le esportazioni verso l’Europa. Le Itt rilevano lo stesso rapporto, ma con i prezzi ponderati con i volumi degli scambi. Per calcolare il peso reale delle tariffe, si può inoltre calcolare Il cosiddetto livello di protezione effettivo, ossia una tariffa media “netta” che tiene conto dell’incidenza sul valore aggiunto, al netto delle riesportazioni e degli usi intermedi.

Una stima approssimativa basata sui calcoli dell’Ocse è che il 50% del valore delle esportazioni dell’Ue verso gli Stati Uniti è costituito da valore aggiunto di origine Ue. Una tariffa media nominale del 15% impone quindi una tariffa effettiva del 30% sul valore aggiunto creato nell’Ue. La tariffa che massimizza il benessere dell’importatore nella teoria del commercio internazionale per un Paese con potere di mercato (gli Usa) è data dall’inverso dell’elasticità dell’offerta di esportazione estera verso gli Usa. Questa elasticità misura l’incremento percentuale della quantità di esportazioni offerte dalla controparte commerciale verso gli Usa, in risposta a una variazione dell’1% del prezzo.

Una minore elasticità riflette una minore sensibilità degli esportatori esteri agli ostacoli all’accesso al mercato e alla riduzione dei prezzi, conferendo così maggior potere ai dazi potenziali. Viceversa, una maggiore elasticità indica una maggiore capacità da parte degli esportatori di trovare alternative di mercato altrove, con conseguente minor potere dei dazi di determinare movimenti delle ragioni di scambio favorevoli agli Usa. L’elasticità della domanda Usa, d’altro canto, riflette la risposta delle importazioni Usa alle variazioni dei prezzi, ma non rientra direttamente nella formula tariffaria ottimale. Come nazione importatrice con potere di mercato, gli Usa si comportano infatti come un monopsonista, o un acquirente esclusivo che cerca di ridurre il prezzo di acquisto. In questo caso, il fattore determinante più importante del guadagno che è estraibile dalla controparte non dipende dalla domanda interna, ma dalla risposta dei fornitori esteri.

Studi empirici recenti (2014, American Economic Review) stimano tariffe ottimali per gli Stati Uniti verso gli altri Paesi nell’intervallo del 20-60%, a seconda delle elasticità specifiche del settore, con una media globale vicina al 32%, molto vicina al tasso effettivo (ossia alla tariffa equivalente sul valore aggiunto) del 30% che sarebbe implementato nell’ accordo Usa-Ue. Allo stesso modo, le simulazioni dell’ Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) mostrano che le grandi economie possono ottenere vantaggi in termini di ragioni di scambio con tariffe nell’ ordine del 30-40%, anche se spesso a scapito dell’efficienza e della stabilità globali.

Con una elasticità dell’offerta di esportazioni pari a 4 e un’elasticità della domanda di importazioni pari a -3, si può stimare che l’accordo raggiunto porti a un aumento del 5,6% delle ragioni di scambio dei prezzi a favore degli Usa, con una contrazione del volume delle importazioni del 16,8%. In termini di reddito, le ragioni di scambio diminuiscono invece del 12%, poiché la perdita di quantità commerciate determinata dalle tariffe travolge l’aumento di prezzo. Ciononostante, in termini monetari, il miglioramento del rapporto tra prezzi delle importazioni e prezzi delle esportazioni porta agli Stati Uniti un guadagno lordo di circa 12,6 miliardi di dollari, compensato da 2,8 miliardi di dollari di perdite interne derivanti da scelte di consumo e produzione distorte.

Il risultato è un guadagno netto di benessere di 9,7 miliardi di dollari per l’economia statunitense. In particolare, l’intero guadagno di prezzo viene estratto dagli esportatori dell’Ue, che subiscono una corrispondente perdita di 12,6 miliardi di dollari in proventi da esportazioni, che costituisce un trasferimento diretto di valore. Questo guadagno è chiaramente modesto per una economia delle dimensioni Usa, anche se bisogna tener conto che esso è parte di una strategia tariffaria globale che tende ad estrarre un guadagno annuale da una pluralità di Paesi e non solo dalla Ue.

Allo stesso tempo, le conseguenze più ampie per l’Ue sono molto più gravi: a causa della contrazione dei volumi commerciali e delle conseguenti inefficienze economiche, la perdita totale di benessere dell’Ue è stimata a circa 87 miliardi di dollari, di cui oltre 75 miliardi di dollari di mancati introiti da esportazioni e più di 12 miliardi di dollari di perdita secca. Questa forte asimmetria, in cui un modesto guadagno degli Stati Uniti è abbinato a una massiccia perdita europea, rivela sia il potere redistributivo che l’inefficienza distruttiva insita nell’applicazione unilaterale di tariffe ottimali. L’applicazione sistematica delle nuove tariffe da parte degli Stati Uniti ai loro partner commerciali sembra quindi in sé stessa una minaccia globale al benessere delle nazioni.

Detto questo, l’entità delle perdite dell’Ue dipenderà in ultima analisi dalla capacità dell’Unione di riallocare le esportazioni ridotte dalle tariffe, nonché dalle reazioni di tutti gli altri Paesi coinvolti nella svolta tariffaria americana. Se le imprese europee riusciranno a reindirizzare le merci verso altri mercati esteri o ad aumentare le vendite all’interno dell’Ue stessa, lo scenario peggiore potrebbe essere parzialmente evitato.

In uno scenario di aggiustamento plausibile, in cui il 50% delle esportazioni riesca ad essere riallocato altrove, l’Ue subirebbe comunque una perdita netta di benessere di circa 64 miliardi di dollari. Simulando uno scenario ottimistico, in cui il commercio intra-Europa potesse svilupparsi rapidamente per una più efficace integrazione dei mercati e con nuove partnership internazionali, questa perdita potrebbe essere ulteriormente ridotta a circa 40 miliardi di dollari. Altre misure di riequilibrio includono, oltre alle riforme necessarie per il completamento del mercato unico, la tassazione delle multinazionali e la web tax, entrambe non menzionate nel comunicato sull’accordo.

Tra i Paesi europei, l’Italia è particolarmente esposta. Secondo i dati commerciali dettagliati dell’Ocse e le analisi a livello aziendale, le esportazioni italiane verso gli Stati Uniti superano i 50 miliardi di dollari all’anno, fortemente concentrate in macchinari, meccanica, prodotti farmaceutici, alimentari e beni di consumo di lusso. Questi settori sono a forte intensità di valore aggiunto e dipendono da un accesso stabile ai mercati ad alto reddito. Utilizzando gli stessi parametri di elasticità, si prevede che una tariffa effettiva del 30% ridurrà le esportazioni italiane verso il mercato statunitense del 15-20%, ovvero una perdita annua di 7-10 miliardi di dollari. Le imprese più piccole, che sono predominanti nella base dell’export italiano, hanno un potere di prezzo limitato e sono più esposte a tali shock. Poiché l’andamento delle esportazioni è stato un fattore fondamentale del Pil italiano sin dalla crisi dell’euro, tale perturbazione minaccia di creare costi sproporzionati per il benessere nazionale, soprattutto nelle regioni manifatturiere come la Lombardia e l’Emilia-Romagna.

Inoltre, la specializzazione delle esportazioni delle industrie italiane in settori con minore elasticità della domanda estera al prezzo (ad esempio, prodotti di design, agroalimentare) significa che tali industrie devono assorbire il taglio dei prezzi piuttosto che uscire dal mercato statunitense, facendo sì che il Paese si comporti come un price-taker altamente esposto nel nuovo regime. Un duro colpo che l’Ue infligge a se stessa. Ciò che è notevole qui non è solo che l’accordo è asimmetrico, ma che l’Ue adotta un approccio quasi masochista. Nel caso prototipico di ciò che il famoso economista Jagdish Bhagwati una volta ha chiamato “la resa della politica senza compensazione”, l’Ue non solo assorbe l’intero shock dei dazi, ma si impegna a pagare cifre rilevanti per acquistare energia ed armi dagli Usa a prezzi non competitivi. Deve affrontare un indiscusso deterioramento delle ragioni di scambio, una perdita di volume commerciale e un calo dell’efficienza, ma nessun guadagno compensativo.

La passività mostrata nel disegnare le grandi linee dell’accordo commerciale mina inoltre il potere negoziale dell’Ue nei successivi negoziati commerciali. Gli Stati Uniti sono monopsonisti, che estraggono valore da un fornitore gigantesco, ma frammentato, con scarso potere di determinazione dei prezzi. La moderazione negoziale dell’Ue, presumibilmente per ragioni geopolitiche, ha conseguenze economiche particolarmente catastrofiche per le economie dipendenti dal commercio internazionale come l’Italia.

Conclusione. L’accordo Usa-Ue del 2025 è una rara dimostrazione nel mondo reale della teoria tariffaria ottimale, che consente agli Stati Uniti di trarre un benessere quantificabile dall’esercizio del potere di mercato e dalla minaccia di non ritorsioni. L’accordo con l’Ue, e ancora di più per l’Italia, produce una perdita strutturale di benessere, una contrazione dei proventi delle esportazioni e una perdita di leva commerciale politicamente sanzionata. L’accordo è una dimostrazione del potere e del pericolo del potere unilaterale in un ambiente mondiale fragile, e del danno economico che si verifica quando la moderazione strategica diventa una sottomissione strutturale.

Autore
Formiche

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