Ma quali “talebani della scienza"? Chiedere prove alle pseudoscienze non è dogmatismo
- Postato il 12 maggio 2025
- Di Il Foglio
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Ma quali “talebani della scienza"? Chiedere prove alle pseudoscienze non è dogmatismo
C’è un paradosso ricorrente, tanto curioso quanto rivelatore, che affiora ogni volta che si osa criticare una pratica pseudoscientifica con argomenti fondati: chi avanza una richiesta di prove, chi obietta con dati e chiede coerenza metodologica, viene accusato — con toni che vanno dal risentito al paternalistico — di essere chiuso, dogmatico, o, nella variante più abusata e retoricamente aggressiva, “talebano”.
È uno schema ormai consolidato. Si formula un’obiezione precisa: l’omeopatia, per esempio, non ha mai mostrato in studi controllati e replicabili un’efficacia superiore al placebo. Si documenta la storia del fallimento sistematico delle sue ipotesi fondative (la diluizione infinita, la memoria dell’acqua, la legge dei simili) quando sottoposte a verifica sperimentale. Si evidenziano i problemi etici di chi la propone come alternativa terapeutica, o le incongruenze del fatto che viene venduta in farmacia accanto a farmaci veri. E a quel punto, non arriva una controargomentazione, né una metanalisi, né una proposta di confronto sul merito. Arriva, invece, il giudizio sul tono: “sei rigido”, “sei chiuso”, “sei arrabbiato”, “non rispetti chi la pensa diversamente”, “sei un talebano della scienza”.
Questo passaggio — dallo stato dei fatti allo stato d’animo presunto di chi li espone — è una strategia difensiva ben nota. Quando mancano i dati, si attacca la persona. Quando si è a corto di argomenti, si colpisce il modo in cui l’altro si esprime. Così il confronto slitta dal piano razionale al piano emotivo, e si trasforma in un processo di intenzioni: non importa più ciò che dici, ma il fatto che lo dici “in modo netto”. Come se la chiarezza fosse un difetto, e il dubbio un valore anche quando è infondato.
Ma riflettiamo un momento. Chi è veramente dogmatico? Chi espone una tesi controllabile, chiede prove e accetta di modificarla se emergono nuovi dati? O chi, di fronte a dati contrari sistematici, persiste nella propria credenza e si rifiuta di discuterla, accusando gli altri di chiusura mentale? Chi esercita il pensiero critico sta, per definizione, agendo contro il dogma. È chi non vuole mettere in discussione le proprie convinzioni che si comporta da dogmatico, e spesso lo fa rivestendosi del linguaggio dell’apertura, della tolleranza, del rispetto per tutte le “opinioni”.
La scienza non è un’arena di opinioni. È un metodo. È fatta per escludere le spiegazioni sbagliate, non per accoglierle tutte in un'eterna par condicio tra verità e illusione. E la pretesa che ogni “visione” del mondo abbia lo stesso valore, solo perché qualcuno vi crede sinceramente, è un relativismo pigro che azzera la differenza tra chi controlla e chi inventa, tra chi dimostra e chi crede.
Dietro l’accusa di talebanismo, poi, si cela un’altra illusione, oggi molto diffusa nel marketing delle cosiddette medicine “integrative”: l’idea che affiancare pratiche pseudoscientifiche ai trattamenti basati sull’evidenza rappresenti un arricchimento terapeutico. Ma non è così. Non si rafforza un percorso terapeutico includendo strumenti inefficaci: lo si indebolisce, lo si sporca di ambiguità, si rischia di illudere i pazienti e di perdere tempo prezioso. In un mondo in cui le risorse sanitarie non sono infinite, offrire illusioni terapeutiche a fianco delle cure vere è una forma di irresponsabilità, non di pluralismo.
Il rispetto, quello vero, non consiste nel non criticare mai ciò in cui gli altri credono. Consiste nel prendersi la responsabilità di farlo, quando le conseguenze di quelle credenze possono danneggiare qualcuno. Se vedo vendere acqua zuccherata come rimedio contro malattie gravi, il rispetto per il malato — e per la verità — mi impone di dire con chiarezza che è una truffa. E se qualcuno si offende, non è questo a rendere sbagliata la mia affermazione: è, semmai, il sintomo che quella persona preferisce l’indignazione alla verifica.
Il paradosso è tutto qui: si accusa di chiusura proprio chi ha accettato di mettere le proprie convinzioni sotto il vaglio della prova, e si esalta come “apertura” l’irremovibilità di chi rifiuta ogni critica. Ma la scienza è l’unico sistema conoscitivo che ha codificato la propria fallibilità, che si corregge, che avanza scartando, selezionando, raffinando. Il dogmatismo sta altrove: nell’atteggiamento di chi, pur senza ammetterlo, ha già deciso che nessuna evidenza potrà mai fargli cambiare idea.
E per questo, il confronto si chiude non quando si difende una posizione con rigore, ma quando si rifiuta di ascoltare le ragioni dell’altro, sostituendole con insinuazioni sul tono, con frasi come “non capisco questa rabbia”, con accuse infondate di arroganza e così via. Il talebanismo, se c’è, non sta dove lo si indica con disinvoltura. Sta nel rifiuto sistematico di discutere nel merito.
Ed è un problema che va riconosciuto, perché la medicina — quella vera — si fonda sul dubbio metodico, non sull’immunità emotiva. E il rispetto si conquista con le ragioni, non con le recriminazioni.
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