Maranza e giovani ai margini, non solo stranieri: “Un mix esplosivo se non si interviene”
- Postato il 31 ottobre 2025
- Argomento
- Di Genova24
- 3 Visualizzazioni

Genova. Il blitz al liceo Leonardo Da Vinci, opera secondo gli studenti di “giovani che sembravano maranza”, termine utilizzato per la prima volta anche a Genova dagli investigatori che stanno individuando gli autori dell’irruzione violenta, ma anche gli atti di vandalismo e aggressioni in altre scuole occupate e le cronache quotidiane che raccontano una microcriminalità sempre più ‘giovane’ rendono necessario provare a leggere le cause di un disagio profondo che abbraccia una fetta di giovanissimi anche a Genova. E non solo stranieri.
Ne abbiamo parlato con Roberto Demontis, educatore professionale che è “sulla strada” da oltre trent’anni, prima con l’ambulatorio Città Aperta, poi con l’educativa di strada della Uisp e ormai da anni con la cooperativa Coopsse che gestisce progetti e comunità di diversi quartieri di periferia tra Sampierdarena e il Ponente.
Partiamo da una definizione: ‘maranza’ è quella giusta?
“Una volta questi ragazzi con una definizione marxiana si sarebbero chiamati Lumpen, qualche decennio fa si parlava proletariato giovanile, con riferimento a quei ragazzi che diedero vita ai primi centri sociali. Oggi però il contesto è tutto diverso e si cerca di dare un nome a quello che si conosce poco. Li chiamiamo teppisti, maranza, ma quello che emerge è che c’è una netta divisione tra chi è inserito e chi è fuori. E mentre una volta esistevano comunque dei ponti dati da politica e dall’associazionismo, oggi questo viene a mancare”.
I dati sulla criminalità giovanile sono piuttosto allarmanti…
“I dati forniti dalla Procura dei minori dicono che i reati commessi da minori a Genova sono aumentati del 30% nel 2023 rispetto all’anno precedente con 1.844 iscrizioni di minori nel registro degli indagati contro le 1.665 dell’anno precedente. Aumentano del 43% i reati commessi da minori stranieri non accompagnati, aumentano in generale le rapine e i furti commessi da minorenni e raddoppiano le violenze sessuali su minori. E’ chiaro che questi comportamenti sono deprecabili e destano allarme, ma demonizzare e criticare, se può essere comprensibile da parte dei cittadini non serve a molto, così come non serve a nulla, con riferimento ai minori stranieri, dire ‘Rimandiamoli indietro’ perché non si può fare nemmeno per legge. Una società e un’amministrazione devono avere un atteggiamento pragmatico per mettere in campo delle strategie per la risoluzione dei problemi o almeno per il loro contenimento”.
Da dove comincia l’esclusione?
“Per i ragazzi stranieri, arrivati magari con i ricongiungimenti, la prima cifra dell’esclusione è indubbiamente la scuola. I tassi di abbandono scolastico si impennano in prima o seconda superiore ma molti di loro hanno problemi già alle medie. Non è cosi per tutti, ma lo è per una buona parte che si somma a una quota fisiologica di giovani italiani che scontano una serie di difficoltà nelle periferie. Poi in ogni quartiere ci sono diverse comunità che hanno una presenza che cambia a seconda della zona: a Sestri Ponente, dove lavoro oggi, c’è una presenza soprattutto di bambini e giovani del Bangladesh che sono arrivati con i ricongiungimenti e che hanno un impatto significativo sulle scuole del sestrese. In queste scuole e in quelle del Ponente in generale, che erano già da anni multietniche, c’è una grande percentuale di abbandono o di insuccesso scolastico. Così questi ragazzi stanno sulla strada e si aggregano in gruppi non necessariamente violenti, ma alcuni – che sentono in maniera più forte la rabbia per l’esclusione – cominciano a commettere reati ai danni di loro coetanei: furti di cellulari, vestiti firmati, molestie alle ragazze. Si aggregano all’inizio su base soprattutto etnica, gli albanesi con gli albanesi, i magrebini con i magrebini, ma tra loro si conoscono tutti e non c’è quasi mai conflittualità tra gli esclusi”.
Che ruolo hanno i social?
“Per i giovani i social sono una vera e propria ossessione. Sono alienanti e insieme alimentano il bullismo perché se prima se venivi preso in giro fuori da scuola e qualcuno ti faceva uno sgambetto lo vedevano in dieci. Ora ti fanno un video e finisce in tutte le chat. In più, quello che è completamente regredito in questi gruppi è il rapporto uomo-donna. Addirittura ho saputo dai miei ragazzi che spesso quando si fidanzano si installano delle app di tracciamento. E le ragazze sono una sorta di proprietà da mostrare. E uno sguardo sbagliato spesso scatena la rissa o peggio anche perché ormai c’è anche il problema dei coltelli molto diffuso”.
Venendo al caso Leo, come si può leggere quanto accaduto?
“Da quello che ho letto di quello che è accaduto al Leonardo da Vinci vedo una sorta rabbia dovuta all’esclusione di questi giovani che si sentono diversi, mossi solo dalla voglia di distruggere il simbolo di qualcosa lontano anni luce da loro come la cultura, la solidarietà, l’impegno politico il protagonismo delle donne. In questo caso leggo dai giornali che sembrano esserci alcuni ragazzi stranieri di seconde generazioni che mischiati all’insofferenza degli italiani ai margini crea un mix esplosivo.
Tra i giovani italiani emerge anche una deriva fascistoide…
“Nella quotidianità vissuta da una parte di giovanissimi dei quartieri più difficili può succedere che riferimenti a Mussolini e a simbologie fasciste siano un modo di dare un’immagine forte a chi si percepisce come svantaggiato rispetto agli altri coetanei e un’immagine di orgoglio nazionale di fronte ai coetanei immigrati che esibiscono a loro volta un arroccamento identitario. In parole povere più ti senti sfigato più hai bisogno di simboli potenti, anche se sbagliati. Questo vale anche per la musica che sentono questi ragazzi, i Baby gang, Symba la Rue e per un certo modo di vestire che rafforzano un’appartenenza. Tutto questo è indubbiamente lo specchio di uno fallimento della società che ma non posso dire che la società non sia stata messa in guardia. Già dagli anni Novanta quando ero in città aperta ricordo i numerosissimi incontri in Comune dove sollevavamo il problema dei bambini marocchini che venivano mandati qui a vendere i fiori con lo zio. Erano abbandonati a loro stessi. Oggi questi questi ragazzini hanno solo la strada, il gruppo – perché al momento non si può parlare di bande come all’epoca delle pandillas sudamericane – e senza una famiglia alle spalle solida non hanno alcuna possibilità di ascensore sociale. E questo scatena la rabbia e la frustrazione che possono trasformarsi in violenza”.
Come si interviene?
“Le istituzioni mettono su alcuni progetti ma gli investimenti, indipendentemente dal tipo di giunta sono sempre insufficienti. A Genova per esempio è stato istituito il progetto Deck che è un buon progetto. Il metodo è quello della dote di cura applicato ai percorsi riabilitativi di giovani autori di reato con l’obiettivo di ridurre il tasso di recidiva grazie ed equipe multidisciplinari, ma il progetto riguarda 500 ragazzi sulle 4 province, quindi a Genova sono 125. E’ chiaro che si tratta di numeri assolutamente insufficienti. All’estero invece ci sono una serie di progetti interessanti che si basano sul modello del Credible Messenger. E’ un programma nato a New York che dati alla mano ha portato a una riduzione del reati giovanili del 60%. I “credible messengers” sono persone, che hanno un background di violenza, reati e carcere e che, proprio per le ‘qualifiche’ ottenute sul campo, sono riconosciuti dai ragazzi come interlocutori da rispettare e svolgono un ruolo di mediatori che possono intervenire nelle varie comunità, rispondere ai conflitti attivi, fare de-escalation anche in situazioni potenzialmente molto pericolose.E anche ad Amsterdam, dove nelle periferie hanno un tasso di criminalità molto elevato, hanno attivato dei progetti basati sullo stesso modello. A Londra invece, da dieci anni c’è il progetto “’SOS” che utilizza ex detenuti per intervenire in carcere con i giovani detenuti e far si che una volta fuori si costruiscano un futuro alternativo alla gang. Insomma, il contesto oggi è estremamente difficile ma all’estero si interviene e si ottengono risultati. Sarebbe l’ora di cominciare anche qui ma è chiaro che si tratta di percorsi di lunga durata che richiedono investimenti”.