Maurizio Lai: «Si urbanizza per pura speculazione. La Milano esclusiva ha perso l’anima»
- Postato il 18 luglio 2025
- Di Panorama
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«Pensavo di restarci due mesi, invece sono passati 38 anni». Maurizio Lai guarda Milano con un misto di amarezza e stupore, mentre lo skyline cambia sotto il peso dell’inchiesta. La città gli appare tesa, inquieta, come una piccola metropoli che fatica a restare in equilibrio. Architetto, scenografo e designer con esperienze internazionali, Lai prova a interpretare ciò che sta succedendo a una città che, nonostante le contraddizioni, continua a esercitare un forte richiamo per chi cerca di immaginare il futuro.
Qual è il primo sentimento di un’archistar davanti a queste notizie?
«Milano è una città che inevitabilmente cambia e lo fa velocemente. Ha un dinamismo unico, talvolta è perfino difficile tenerle dietro. Ora, se i passi fatti siano corretti o meno, non si può ancora sapere. Saranno le inchieste a determinare il perimetro di tutta la faccenda».
Il sistema delle autocertificazioni, delle licenze facili, è davvero un modo per bypassare la burocrazia?
«Il problema è un altro. Il punto critico è che questa urbanizzazione intensiva non sembra un’operazione utile ai cittadini ma è una manovra speculativa, che sta portando Milano a un totale svuotamento. Tutto ciò è pericoloso».
Che significa?
«Questa città è diventata una fabbrica espansa a livello urbano, che funziona dal lunedì al venerdì. È interessante per aziende, operatori, interessi di persone che arrivano da ogni parte del mondo. Ma l’effetto è vedere una realtà disumanizzata, con il tessuto sociale compromesso».
Lei è sorpreso dai colpi di scena?
«Ciò che sta venendo fuori era nell’aria. Quello che lei chiama sistema delle autocertificazioni serviva solo a togliere responsabilità all’ente pubblico e a chi portava avanti il lavoro negli uffici. Come dire al committente: la responsabilità è solo tua. Ma non può essere così. Anche se non vedo abusi ma vizi formali, tutto ciò è una forzatura. Perché non possiamo dimenticare un punto di partenza essenziale: quando si crea volume per metterci persone a vivere all’interno, è necessario realizzare servizi all’altezza, strutture di supporto che aiutino queste persone a inserirsi nel contesto cittadino. E tutto ciò spetta alla pubblica amministrazione».
Secondo lei dove ha sbagliato il sindaco Sala?
«Non si può dare un giudizio netto. L’idea della rigenerazione urbana ha un senso e nella gestione di operazioni così complesse, l’ente pubblico è costretto a cercare e raggiungere compromessi diversi. Osservando Milano come si presenta oggi, è evidente che alcuni errori sono stati fatti, ma va anche riconosciuto che le decisioni strategiche di un sindaco non sono mai semplici».
Di cose ne ha sbagliate. Dove innanzitutto?
«Le piazze senza alberi mettono tristezza, quando per lavoro devo pianificare l’abbattimento di un albero mi viene male. E gli alberi ammalati di Milano non mi convincono. Ma in questi casi sono le commissioni del Verde e del Paesaggio che devono dare un giudizio».
Ora si rischia la paralisi dei progetti?
«L’impasse determinato dalla paura sarebbe negativo per tutti. Ho letto che anche il progetto di piazzale Loreto è in bilico; in questi casi l’amministrazione si chiude a riccio e non ti concede più nulla. Tu chiedi agli uffici e le risposte non arrivano. Non è certo il modo migliore di far lavorare un settore strategico come quello dell’edilizia».
Voler trasformare Milano in Amsterdam è stato un atto di presunzione?
«Le piste ciclabili, così come sono state pensate, sono un disastro. Premesso che è giusto che ci siano e che ogni cambiamento scontenta sempre qualcuno, il grande problema è che con questa strategia si è creato un tappo alla circolazione. In corso Buenos Aires mi metto nei panni dei commercianti; in quella zona non mi sono mai più fermato in un negozio perché non posso parcheggiare. Tra l’altro i cordoli sono pericolosi per le stesse biciclette. Milano non sarà mai Amsterdam per due motivi».
Quali sono?
«Non ha lo stesso impianto urbano, essendo un monocentro a raggiera, ed è abitata da persone che per carattere e senso civico non sono olandesi. Se sono in auto e devo svoltare a destra trovo spesso un monopattino che mi supera sulla mia destra per andare dritto. Rischiosissimo. La liberalizzazione selvaggia dei monopattini è stata un errore».
Lei ha detto che 30 anni fa Milano era il luogo ideale per realizzare i sogni di un giovane. Lo è ancora?
«Sono arrivato a Milano a 21 anni, da Padova, con alle spalle una famiglia di origini umili. Fin da subito ho percepito un’energia straordinaria: era una città che valorizzava l’iniziativa, dove contavano la determinazione e le idee, non le provenienze. Oggi, quello slancio sembra essersi affievolito. Vedo nei giovani meno spazio per sognare e, forse, anche meno desiderio di farlo».
Lei tiene un master al Politecnico e tocca con mano tutto ciò. Giusto?
«Vedo ragazzi disorientati che hanno abbassato la soglia di attenzione e non hanno la determinazione di crearsi un futuro perché sono convinti dalla narrazione in vigore di non avere spazio. Invece non è vero».
Somigliano a questa Milano che perde l’anima?
«Le università, come la città, affrontano oggi una sfida complessa: il rischio di diventare realtà troppo esclusive. Milano attrae sempre più persone interessate soprattutto a investire, mentre molti atenei sembrano popolati da studenti privilegiati, spesso poco coinvolti. Il pericolo è che, invece di coltivare vere eccellenze, si finisca per lasciare indietro giovani di talento che non possono permettersi l’accesso a causa dei costi».
Giò Ponti progettò il Pirellone davanti alla stazione Centrale per dare il buongiorno a chi veniva da fuori a lavorare e a fare grande Milano. Sala ha piazzato l’Area B per escluderli.
«Mi lasci dire, Milano rimane bellissima. Ma oggi è esclusiva solo perché, purtroppo, mira all’esclusione».