Medici sotto attacco: lo scudo penale che non li protegge

  • Postato il 7 settembre 2025
  • Di Panorama
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Uno scudo che non protegge dai dardi velenosi che da anni minano il lavoro e la serenità dei medici e la tenuta del Servizio sanitario: uno scudo che ora rischia di essere ulteriormente depotenziato. Ogni anno, infatti, vengono intentate contro i camici bianchi, per presunti danni arrecati ai pazienti, circa 35 mila nuove azioni legali, mentre più di 300 mila pendenze giacciono nei tribunali. Un’enormità. E si tratta di dati sottostimati, perché negli ultimi anni non sono stati aggiornati da nessun organismo indipendente. Inoltre, nonostante un medico su tre in Italia sia stato oggetto di una denuncia, solo il 3 per cento delle cause si conclude con una condanna. E nel frattempo, dopo anni di spese, avvocati, gogna mediatica e danno morale, quando arrivano alla fine dell’incubo parecchi di quei professionisti hanno già abbandonato gli ospedali.

La legge e lo scudo penale

La responsabilità sanitaria, normata dal decreto Balduzzi del 2012, poi dalla legge Gelli-Bianco del 2017, dallo scudo penale emergenziale del 2021 fino all’ultimo Milleproroghe, divide la politica e i professionisti della sanità. Il 4 agosto scorso, il disegno di legge presentato dal ministro della Salute Orazio Schillaci, che avrebbe dovuto rendere strutturale lo scudo penale per i medici, si è arenato in Consiglio dei ministri: tutto rimandato a dopo le ferie.
La misura, pensata per proteggere i medici e arginare la fuga dalle corsie ospedaliere, prevedeva una riformulazione dell’articolo 590-sexies del Codice penale – in modo da rendere punibili i medici solo in caso di “colpa grave” – e l’aggiunta del 590-septies, dove si stabilisce che nell’accertare la colpa occorre tenere conto anche della scarsità delle risorse umane e materiali disponibili e delle carenze organizzative. Ma non si è trovata la quadra, probabilmente anche per motivi di opportunità politica: il concetto che i professionisti della sanità godano di privilegi che li proteggono in caso di errori è indigesto per i cittadini.

Il peso della medicina difensiva

Solo che non si tratta di privilegi, e chi ha più da “perderci”, dai conflitti in tribunale, sono proprio i cittadini. «La spada di Damocle dell’incertezza giudiziaria spinge i medici ad agire non più nell’interesse primario del paziente, ma per proteggersi dal giudice», spiega a Panorama Filippo Anelli, presidente di Fnomceo (Federazione nazionale ordini dei medici chirurghi e odontoiatri). «Un medico sa che, se qualcosa va storto, si troverà davanti a un magistrato che gli chiederà perché non ha fatto quell’esame, prescritto quel farmaco o disposto quel ricovero. Per tutelarsi tenderà a fare tutto: ricoveri più lunghi o inutili, esami superflui, prescrizioni ridondanti. In questo modo si sprecano risorse, si allungano le liste d’attesa e si sottraggono opportunità di cura a chi ne ha bisogno».

Persino i ricoveri prolungati possono rivelarsi controproducenti: più si rimane in corsia, più si è a rischio di infezioni ospedaliere, di disorientamento, di esami rischiosi e di cadute che compromettono irrimediabilmente il quadro clinico. «I malati e i familiari, quando inducono i camici bianchi a fare medicina difensiva, rischiano di far crollare il concetto stesso di “coraggio”, sia diagnostico che di azione», spiega Paolo Groff, primario di Pronto soccorso dell’Ospedale di Perugia. «Questo modo di pensare governa la nostra mente davanti a ogni paziente, spingendoci a ragionare per difenderci. La medicina è una scienza non esatta, e quando facciamo una diagnosi procediamo per probabilità, cercando di inquadrare il paziente in una curva gaussiana. Ma agli estremi di quella curva l’errore è inevitabile. Non chiediamo uno scudo che ci renda intoccabili, contestiamo il fatto che l’errore diagnostico o terapeutico, frutto di un ragionamento clinico, venga trattato come reato. Se scelgo una strada logica e a posteriori si rivela sbagliata, non significa che io abbia commesso un crimine».

Le carenze strutturali e l’ombra dell’IA

A tutto questo va aggiunta la carenza di organico e l’insufficienza della medicina territoriale, che scarica tutte le problematiche sanitarie sugli ospedali, oltre ai problemi che un prossimo futuro arriveranno dalle diagnosi suggerite dall’Intelligenza artificiale, con cui i medici dovranno concordare o alle quali dovranno opporsi, trovandosi in una situazione di ancor maggiore “incertezza legale”.

L’aspettativa dei pazienti e la percezione pubblica

In questa situazione di scarsa chiarezza e di discrepanza tra domanda e offerta nascono i contenziosi. «I malati e i loro familiari escono furibondi dagli ospedali, convinti che la medicina possa dare sempre una risposta», spiega il dottor Franco Marozzi, vice presidente di Simla, Società italiana di medicina legale e delle assicurazioni. «Ma non è così, perché mai nella storia dell’umanità l’aspettativa di vita è stata così alta, e questo è un risultato straordinario, figlio del progresso scientifico: tutto ciò ha fatto sì che le persone vivano una sorta di assoluta pretesa di salute e di sopravvivenza. Non contemplano la possibilità che l’ars medica possa essere fallace. Quando le cose vanno male si sentono traditi e scatta la ricerca del colpevole».

A peggiorare le cose ci si mette anche l’opinione pubblica: il singolo caso di presunta malasanità viene ingigantito, come se fosse la regola, ignorando che in termini di statistica si tratta di frazioni infinitesimali. In Italia ogni giorno si erogano milioni di prestazioni sanitarie, tutte con una percentuale di rischio, ma le denunce sono “solo” 35 mila all’anno. «La politica, dal canto suo, spesso parte solo alla ricerca del singolo capro espiatorio», afferma un primario di chirurgia che preferisce rimanere anonimo. «Mai ammettere i limiti del sistema, meglio parlare di negligenza individuale e invocare punizioni esemplari, magari per un medico che ha sbagliato lavorando sotto organico e in condizioni di stress».

Il dolore dei familiari e il business delle cause

C’è poi l’altra parte della barricata. Quella di chi in corsia, in Pronto soccorso, su un’ambulanza, ha perso un proprio caro: è accecato dal dolore, convinto di essere vittima di un errore medico. Come dargli torto? «E un comportamento comprensibile», continua Anelli. «Nessuno vuole impedire ai cittadini di avere giustizia in caso di errori. Chiariamo però un concetto chiave: se io sparo a qualcuno, compio un atto volontario, scelgo di fare del male. In medicina non è così: puoi aver seguito le linee guida, ma statisticamente un evento avverso può verificarsi. Non è volontà del medico: ecco perché il 97-98 per cento dei procedimenti si chiude senza colpe. Che senso ha aprire indagini, spendere soldi pubblici, far vivere ai professionisti anni di processi inutili, per poi tornare sempre al punto di partenza?».

Dietro la disperazione di malati e familiari c’è anche un enorme business: sul piano economico, intorno alla responsabilità sanitaria ruota un ecosistema che non riguarda solo le polizze delle strutture ospedaliere ma anche parcelle, consulenze e perizie. Il mercato assicurativo della responsabilità civile sanitaria vale moltissimo: nel 2023 i premi dei rami responsabilità civile generale e sanitaria ammontavano a circa 706 milioni di euro, per un bacino economico che alimenta l’indotto del contenzioso (avvocati, Ctu, periti, mediatori).
Per gli studi legali si parla di un giro d’affari che vale 2 miliardi all’anno e che – visti i dati di archiviazioni e assoluzioni – risulta essere un buon affare solo per gli avvocati che, ovviamente, vanno pagati comunque: un percorso del genere rischia pertanto di “rovinare” ulteriormente il malato o i suoi familiari.

Nessuna soluzione all’orizzonte

Soluzioni? Al momento nessuna e non è nemmeno scontato che lo “scudo penale” torni presto all’attenzione del Consiglio dei ministri e venga approvato, visti i problemi del ministro Orazio Schillaci. E vista anche la poca chiarezza sul discrimine tra colpa grave e attività di speciale difficoltà. «Il cuore di una possibile risoluzione del contenzioso è proprio la definizione di colpa grave», conclude Marozzi. «Stabilirla è complicatissimo: la Cassazione ha già elaborato varie definizioni, ma sono tutte difficilmente applicabili. Oggi la medicina è talmente evoluta che riuscire a scrivere in una legge che cosa è la colpa grave e cosa no sarebbe un’impresa da grande legislatore, al livello di Napoleone. Battute a parte: questa statura politica negli ultimi decenni non l’abbiamo vista».

A Marta, però, non interessa più: valida specializzanda in un Pronto soccorso italiano, un paio di mesi fa si è dimessa. Non ha retto all’azione legale intentatale per un decesso a causa della rottura di un aneurisma: mesi di ansia, diagnosi di esaurimento e a quel punto la fuga in cerca di un lavoro meno rischioso. Poi è arrivata l’archiviazione, ma Marta a quel punto era già uno dei tanti medici in meno, quelli che non troveremo quando arriveremo di corsa in ospedale in cerca di aiuto.

Autore
Panorama

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