Mediobanca dice no all’OPS su Banca Generali: finisce l’era dei “capitalisti senza capitali”
- Postato il 22 agosto 2025
- Di Panorama
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Il no dei soci di Mediobanca all’offerta di pubblico scambio di azioni Generali, che avrebbe consentito il controllo della banca che porta il nome della compagnia di assicurazioni triestina ma soprattutto di sfuggire alla scalata di Mps, non rappresenta solo una sconfitta di un manager ambizioso e disinvolto come Alberto Nagel, ma anche la fine di un sistema. Lo stop di ieri è il capolinea del capitalismo senza capitali, di ciò che un tempo, con un’espressione mutuata dagli Stati Uniti, avevamo definito l’industria delle public company, ossia delle società controllate dal mercato e non da un padrone. Mediobanca è stata per almeno tre quarti di secolo il simbolo di una gestione affidata a manager potenti e inamovibili. O meglio: dalla sua fondazione, per mano di Enrico Cuccia prima, di Vincenzo Maranghi poi, e infine di Alberto Nagel, Mediobanca è stata la stanza di compensazione di un sistema dove l’imprenditore poteva controllare un’impresa con quote di minoranza, ma con una maggioranza di alleanze. Tutto ruotava intorno a Cuccia e alla sua creatura, salotto di un capitalismo senza capitali, garantendo il controllo delle società senza che famiglie come Agnelli, Pirelli, Lucchini, Pesenti e Orlando dovessero mettere soldi di tasca propria. La banca era garante di un sistema incestuoso di partecipazioni incrociate. Con un’immagine efficace, Salvatore Bragantini definì Mediobanca un direttore d’orchestra. Al vertice di una costruzione che non era un gruppo economico, ma una specie di confederazione di gruppi, «un gigantesco conglomerato operante in campo assicurativo, bancario, finanziario, industriale e delle comunicazioni». La morte di Cuccia, deus ex machina del sistema, la crisi industriale e poi quella finanziaria, hanno spazzato via tutto ciò. Del sistema restava solo il simbolo: Mediobanca e una certa arroganza nell’uso del potere. Governata non da un’azionista, ma dai manager che agli azionisti si erano sostituiti. Perché, nell’erigere tutto ciò, i vertici della banca avevano badato a ottenere un risultato preciso, come spiegò ancora Bragantini: «Sottrarsi al rischio di scalate, acquisendo il controllo sostanziale dei gruppi che la controllavano». Alberto Nagel è riuscito a resistere nonostante la scomparsa di Cuccia, vent’anni fa, avesse già incrinato il mito della banca d’affari. Con una serie di mosse, ma soprattutto distribuendo importanti dividendi derivanti in gran parte dai successi delle Generali di cui Mediobanca è primo azionista, il banchiere, che si sentiva padrone della banca pur non essendolo, ha conservato per anni il potere, resistendo a ogni attacco. La sua forza, come detto, erano i dividendi e i fondi d’investimento, che non amano la destabilizzazione di un’istituzione, ma solo la sua capacità di remunerazione.
Però Nagel, forse sentendosi sicuro di sé, non ha fatto i conti con due azionisti di rilievo. Il primo si chiama Delfin ed è la holding della famiglia Del Vecchio, ovvero del colosso degli occhiali. Leonardo Del Vecchio, scomparso due anni fa, con Nagel aveva un vecchio conto da regolare per via dell’irragionevole rifiuto di una donazione che il patron di Luxottica voleva fare allo Ieo, l’istituto oncologico privato fondato da Umberto Veronesi. Si dice che il contributo fosse di mezzo miliardo, ma Nagel per motivi insondabili respinse l’offerta, attirandosi le ire dell’imprenditore, che per tutta risposta si comprò il 20 per cento di Mediobanca. All’antipatia dichiarata di Del Vecchio si è unita quella di Francesco Gaetano Caltagirone, uno degli uomini più liquidi d’Italia, il quale entrato nelle Generali, con Del Vecchio, avrebbe voluto cambiare un po’ di cose, ma sulla sua strada si è trovato il solito Nagel, al quale i dividendi della compagnia facevano un gran comodo per rimanere in sella (anche se ora preferisce parlare dei conflitti d’interesse altrui). Sia Delfin che Caltagirone hanno provato ad avere voce in capitolo, a Trieste e a Milano, ma senza successo, anche per via della legge bancaria. E così siamo arrivati al punto che un bel giorno Mps, la banca che il Pd ha affondato e lo Stato salvato, aprendola poi ai privati tra quali proprio Delfin e Caltagirone, ha lanciato un’offerta per prendere Mediobanca. Una mossa geniale, ma soprattutto mortale per Nagel. Il quale si è difeso lanciando un’offerta di pubblico scambio con Banca Generali. Un istituto di credito dinamico in cambio delle azioni con cui Mediobanca controllava la compagnia. Un gioco delle tre tavolette, vantaggioso per l’assicurazione del Leone, e insieme una mossa disperata che avrebbe consentito a Nagel di mantenere il proprio potere, sottraendosi all’assedio di Mps. Non ha funzionato. Già a luglio l’amministratore delegato di Mediobanca si deve essere reso conto di non avere i numeri, tanto da sconvocare in una calda domenica di fine mese l’assemblea per rinviarla a metà settembre. Poi la stessa Banca Generali si era mostrata fredda di fronte all’ipotesi di fusione. Infine, Bce e Consob hanno imposto a Nagel di convocare i soci e di votare. Così ieri si è giunti all’epilogo, con la bocciatura dell’operazione Salva Nagel, una furbata escogitata in tutta fretta per riuscire a sottrarsi all’operazione di Mps. Che finisse così ormai era prevedibile. Del resto, lo stesso Nagel invece di presentarsi all’assemblea da lui stesso indetta pare se ne sia stato in vacanza alle Hawaii, mentre alcuni suoi collaboratori vengono segnalati in Portogallo e Malesia. Non so quali saranno le prossime mosse. Ci sarà da attendere la chiusura dell’offerta del Monte dei Paschi di Siena e l’uscita, con maxi-liquidazione annessa, dello stesso Nagel.
Una cosa è certa: la stagione dei capitalisti senza capitale è finita e anche quella dei manager che si sentono padroni in casa d’altri.