Meloni boccia la patrimoniale. Intanto con il suo governo la pressione fiscale è la più alta degli ultimi dieci anni
- Postato il 10 novembre 2025
- Economia
- Di Il Fatto Quotidiano
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Giorgia Meloni è stata abile, sabato, a sviare l’attenzione dai rilievi sulla legge di Bilancio attaccando la proposta di “patrimoniale” arrivata dalla Cgil. Ma la narrativa della premier ha il fiato corto. Difficile convincere gli italiani che sia “la sinistra” a volerli tartassare quando, con la leader di Fratelli d’Italia a Palazzo Chigi, la pressione fiscale è arrivata al livello più alto da un decennio. I dati ufficiali dicono che, dopo due anni di calo, nel 2024 il rapporto tra entrate fiscali e contributive e Pil è balzato dal 41,2% al 42,5%. E, secondo le previsioni contenute nei documenti di finanza pubblica firmati da Giancarlo Giorgetti, quest’anno si attesterà al 42,8%. Escludendo l’anno pandemico, che non fa testo visto il crollo del prodotto interno lordo, per trovare un valore simile bisogna tornare al 2015, con Matteo Renzi a Palazzo Chigi, subito dopo il picco toccato sotto Mario Monti. Nel 2026, stando alle previsioni che tendono conto dell’impatto della manovra, non è previsto alcun calo. Altro che “con la destra al governo niente nuove tasse”.
Nei mesi scorsi la premier aveva provato a spiegare il rialzo sostenendo che si trattava di un effetto collaterale dell’occupazione record: “Se un percettore di reddito di cittadinanza trova lavoro e paga le tasse, la pressione fiscale sale”, aveva detto. Ma la tesi è senza fondamento: chi trova lavoro inizia sì a pagare tasse e contributi, alimentando il numeratore, ma genera anche reddito, facendo crescere il pil che sta al denominatore. Quindi il rapporto non dovrebbe aumentare. In realtà le due misure si sono mosse a ritmi diversi: nel 2024 le entrate fiscali e contributive sono cresciute di più del doppio rispetto al progresso del Pil nominale. Perché?
Come hanno spiegato Massimo Bordignon e Leonzio Rizzo su lavoce.info, a determinare l’aumento della pressione fiscale è la struttura stessa del sistema italiano accompagnata dal ritorno del “drenaggio“, il meccanismo che fa salire il prelievo effettivo quando l’inflazione spinge gli stipendi in scaglioni Irpef più alti, senza aumenti reali del reddito disponibile e quindi della capacità contributiva. Primo punto: il fisco italiano grava in misura sproporzionata sul lavoro dipendente. Quasi la metà delle entrate totali arriva dai salari, che rappresentano però solo il 38% del Pil, mentre i profitti (50% del Pil, in cui sono compresi redditi e contributi degli autonomi) contribuiscono appena per il 17% del gettito. Il risultato è che, quando salgono i redditi da lavoro, le entrate aumentano più del Pil e la pressione fiscale si inasprisce. A questo si aggiunge l’effetto combinato della progressività dell’Irpef e della mancata indicizzazione degli scaglioni all’inflazione. I redditi da lavoro dipendente, che sono l’85% della base imponibile, sono gli unici a essere tassati con aliquote crescenti. Per cui gli aumenti di stipendio nominali dovuti a rinnovi contrattuali mirati a recuperare il potere d’acquisto perso con l’inflazione fanno salire l’aliquota media applicata. E la pressione fiscale aumenta anche in assenza di nuove imposte.
Le azioni del governo hanno migliorato o peggiorato la situazione? L’Ufficio parlamentare di bilancio lo scorso anno aveva calcolato che la scelta di rendere strutturale da gennaio 2024 il taglio del cuneo contributivo sostituendolo con una riduzione del prelievo fiscale ha reso il sistema ancora più esposto all’effetto perverso del fiscal drag. Giovedì scorso, in audizione sul ddl di Bilancio, la presidente Lilia Cavallari ha presentato un’analisi più ampia che fa il bilancio di tutti gli interventi fiscali e contributivi adottati dal 2021 a oggi, considerando anche il taglio della seconda aliquota Irpef che entrerà in vigore l’anno prossimo. Nell’insieme, ha concluso, queste riforme hanno più che compensato gli effetti combinati del drenaggio fiscale e dell’erosione dei trasferimenti monetari dovuta all’inflazione per i lavoratori dipendenti con redditi bassi: per chi guadagna tra 10mila e 32mila euro la “nuova” Irpef è più conveniente rispetto a uno scenario in cui fosse ancora in vigore il sistema fiscale del 2021 ma con scaglioni indicizzati all’inflazione. Ma la fascia subito sopra, tra 32mila e 45mila euro, dall’anno prossimo pagherà più tasse rispetto a quanto avrebbe dovuto fare con il vecchio sistema indicizzato. Mentre per chi dichiara sopra i 45mila euro l’aliquota media effettiva sarà solo “leggermente superiore”, in misura sempre più trascurabile al salire del reddito. Peggio è andata ai pensionati: fino a 40mila euro di assegno annuale pagano più di prima. Idem per gli autonomi, che versano meno Irpef solo se hanno redditi tra 40 e 70mila euro (va però ricordato che quasi 2 milioni di partite Iva hanno optato per la flat tax e sono quindi fuori dal sistema progressivo).
Alla prova dei numeri, dunque, il peso del fisco è ai massimi e chi vive di lavoro paga di più, mentre chi gode di rendite e patrimoni si avvantaggia di regimi agevolati. Per i redditi medi il parziale recupero dei salari, consentito dai rinnovi contrattuali, è stato assorbito dal sistema tributario. Una tassa sulla ricchezza, come parte di una riforma complessiva che comprenda l’ampliamento della base imponibile dell’imposta sui redditi delle persone fisiche a tutti i redditi da lavoro e a quelli da capitale finanziario abolendo le flat tax, potrebbe rendere il quadro più equo. Ma Meloni la evoca solo per scatenare le opposte tifoserie e allontanare gli sguardi da numeri poco lusinghieri.
Grafico realizzato con l’AI
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