Meloni: “Nella lotta all’evasione i risultati migliori della storia”. Silenzio sugli autonomi: il 55% resta inaffidabile per il fisco

  • Postato il 10 giugno 2025
  • Economia
  • Di Il Fatto Quotidiano
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“A chi ci accusa di aiutare gli evasori e fare condoni, rispondiamo con i fatti, che a differenza della propaganda non possono essere smentiti. Questo è il governo che ha ottenuto i risultati migliori nella storia nella lotta all’evasione“. Giorgia Meloni è stata molto applaudita – con tanto di standing ovation – agli Stati generali dei commercialisti, soddisfatti per la riforma della responsabilità dei collegi sindacali e da lei blanditi per il “ruolo essenziale nel buon funzionamento della macchina fiscale e tributaria” a poche settimane dalle crisi di nervi causate da alcuni down del sito delle Entrate. Ma sul contrasto al “nero” la premier continua a rivendicare presunti primati che in realtà non esistono. E a tacere sugli ultimi dati del dipartimento Finanze del Ministero dell’Economia, che mostrano come il 55% dei 2,7 milioni di partite Iva soggette agli Indici di affidabilità fiscale presenti dichiarazioni ritenute poco plausibili.

I “risultati migliori nella storia” di cui parla la leader di Fratelli d’Italia, rivendicando che “chi vuole fare il furbo non ha spazi ma chi è onesto ed è in difficoltà deve essere messo in condizione di pagare quello che deve”, sono i soldi recuperati dall’Agenzia nel 2024: 26,3 miliardi, 1,6 in più rispetto ai 24,7 dell’anno prima. Ma quella cifra tiene dentro sia le attività di recupero condotte attivamente dall’amministrazione fiscale (per 22,8 miliardi) sia misure straordinarie come definizioni agevolate e rottamazioni, che non dicono nulla sulla reale capacità di contrastare l’evasione e anzi invogliano i contribuenti a non versare quello che devono in attesa della prossima sanatoria. Ai “33,4 miliardi” citati da Meloni si arriva invece solo aggiungendo altri 7,1 miliardi di imposte e addizionali locali e crediti previdenziali. In ogni caso, non regge la rivendicazioni di quei numeri come propri successi: l’aumento dei versamenti diretti, per esempio, può dipendere semplicemente dalla correzioni di errori nelle dichiarazioni, e quello degli incassi da riscossione (saliti da 14,8 a 16 miliardi) è legato in gran parte alla definizione di procedure avviate anni fa.

Venendo all’oggi, colpisce che Meloni non abbia dedicato una parola ai recenti (21 maggio) dati sugli indici Isa di affidabilità fiscale relativi al 2023, primo anno pieno del suo governo. I redditi “ufficiali” di buona parte delle partite Iva che fanno parte delle 175 categorie coinvolte, come è emerso dall’analisi del Fatto quotidiano, sono irrisori. La maggioranza, come già detto, ha un voto inferiore a 8, il livello minimo per essere ritenuti affidabili. Si parla di ristoratori che tirerebbero avanti con poco più di 15mila euro annui, discoteche e night che sopravviverebbero con 7mila euro l’anno, tintorie che arrivano a malapena a 14mila, concessionari balneari e albergatori in miseria con 18mila euro l’anno. E ancora: nel comparto delle produzioni e distribuzioni cinematografiche, nell’industria delle bevande e nella concia delle pelli i redditi medi di chi ha una brutta pagella fiscale sono addirittura negativi.

Il concordato preventivo biennale, parte della delega fiscale del governo, mirava stando alle dichiarazioni ufficiali a ribaltare la situazione convincendo gli autonomi a diventare fiscalmente virtuosi. Ma la prima edizione si è conclusa con un flop annunciato: hanno aderito in 584mila, il 13% della platea potenziale, di cui solo 190mila contribuenti che l’anno prima avevano un voto molto basso. Nessuna svolta visto che l’anno prima, quando il concordato non c’era, 171mila autonomi avevano comunque deciso di migliorare il proprio Isa per ottenere i vantaggi già riservati ai più affidabili. Il “tendere la mano a milioni di persone che per anni si sono sentite vessate e hanno percepito il Fisco come un nemico” – la descrizione che ne ha fatto la premier – non è servito a nulla.

Problemi irrisolti come quello di un livello di tassazione che, ha detto Meloni ai commercialisti, “non corrisponde al livello dei servizi che lo Stato eroga”. Quindi? L’obiettivo del governo è “tagliare le tasse in modo equo e sostenibile”, ha ripetuto la presidente del Consiglio, e dopo l’accorpamento delle prime due aliquote Irpef pensato per beneficiare i redditi più bassi “il nostro lavoro non è finito: intendiamo fare di più e concentrarci oggi sul ceto medio, che è la struttura portante del sistema produttivo italiano”. Una promessa, quella di ridurre le tasse per chi ha redditi fino a 50mila euro circa, più volte ventilata ma mai realizzata visto che le risorse dovevano arrivare proprio dal fallimentare concordato. Non a caso il viceministro al Mef con delega al fisco Maurizio Leo ha subito ricordato che è un obiettivo di legislatura e “mancano ancora due anni e mezzo”.

Intanto la pressione fiscale non fa che aumentare complice il fiscal drag causato dall’inflazione e dalla mancata indicizzazione degli scaglioni Irpef. Problemi che non riguardano gli 1,9 milioni di partite Iva con la flat tax al 15%, che pagano migliaia di euro in meno rispetto ai lavoratori dipendenti ma anche a contribuenti che fanno lo stesso lavoro e non hanno i requisiti per la tassa piatta. Il fatto che oltre una certa soglia di fatturato, ora 85mila euro, si perda il regime di favore, ovviamente li incoraggia a nascondere ricavi. Un altro incentivo al nero.

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