Micronesia segreta: il paradiso che impone un patto con la natura

  • Postato il 20 settembre 2025
  • Di Panorama
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Per entrare, occorre sbrigare una veloce, inconsueta burocrazia: non serve nessun visto, però viene chiesto di firmare il timbro impresso all’arrivo sul passaporto.

Non ha valore legale, giusto quello che gli attribuisce la coscienza di ciascun viaggiatore. È un impegno solenne con i bambini del posto, gli adulti di domani che rimarranno a vigilare su uno degli ultimi paradisi del pianeta. Contiene la promessa di «procedere con leggerezza, agire gentilmente ed esplorare con rispetto». Non danneggiare ciò che non arreca danno.

Perché Palau, parte della Micronesia, uno degli arcipelaghi più remoti del Pacifico, più in là delle Filippine e dell’Indonesia, a nord dell’Australia, è un fragile e sublime residuo d’incontaminato. Un ecosistema straripante di natura, che esige un approccio cauto per non guastarne la verginità quasi totale.

Impone un viaggio estenuante dall’Italia (almeno un giorno intero fra voli e trasbordi), ripaga con un’incredula, commossa visione d’infinito sin dall’atterraggio. Il paesaggio dominante non è il solito oceano ceruleo che abbraccia atolli sparuti, ma un labirinto di centinaia d’isolette di roccia su cui cresce, rampicante e indisciplinata, una vegetazione selvaggia.

Le isole hanno origine vulcanica, sono patrimonio dell’Unesco e, nel loro insieme, assomigliano a un bosco di strambi funghi verdi che emergono da un tappeto di colore blu liquido. Anzi, ricordano un raduno di acconciature eccentriche di densità variabile, perennemente scompigliate dall’andirivieni delle onde.

Palau smentisce con caparbietà qualunque luogo comune della vacanza tropicale: non ci sono sontuosi resort con ville-palafitte piantate nell’acqua, né lunghe strisce di sabbia, ma rare spiagge di palme raggiungibili via motoscafo, dove i locali si radunano per un pic-nic pomeridiano aspettando intensi tramonti rosso fuoco.

Questo piccolo mondo più ancestrale che antico, all’estremità occidentale della Micronesia, è un immenso inganno. Illude con l’apparente placidità sulla superficie, mentre nasconde una febbrile vivacità sommersa. Custodisce fondali da vertigine, una delizia tanto per i sub quanto per chi si limita a indossare la maschera e le pinne.

Si nuota assieme a ipercinetici cuccioli di squalo prima di ritrovarsi ipnotizzati dall’incedere lento di una tartaruga; s’incontrano banchi di pesci intenti a nascondersi, addentrarsi e piluccare tra quasi 400 specie di coralli. Un arcobaleno esagerato, agli antipodi del cielo.

Questa terra la si decifra abitandola dal mare, solcando uno dei rari alberghi in movimento come il Four Seasons Explorer (Fourseasons.com/explorerpalau), nome noto dell’alta ospitalità, che qui declina il lusso in coerenza con il contesto: al netto di una spaziosa suite con il medesimo orizzonte del capitano, le poche cabine della barca sono semplici, pur con tutti i comfort e un letto su cui pare di continuare a galleggiare.

La cucina è abbondante e gustosa, un massaggio all’aperto con le carezze della brezza salata porta il relax a una vetta inedita.

L’attrattiva principale sono le escursioni quotidiane: verso la laguna della Via Lattea, dove andare a cospargersi di un fango miracoloso per la pelle, un po’ puzzolente ma che si lava subito; nel lago salato che fa da habitat alle meduse dorate: si trovano solo in queste acque, sono grandi e innocue al tatto, ma è meglio fidarsi delle parole dei biologi e non verificare.

E poi, immersioni che non stancano mai e avventurose gite in kayak: attorno e in mezzo all’Arco, il simbolo nazionale scavato dall’erosione del mare e del vento; dentro grotte dal buio totale, tra stalattiti che sudano gocce gelide e pipistrelli svolazzanti a quota minima. Sì, fa paura come sembra, ma che soddisfazione sentirsi per un attimo l’erede illegittimo d’Indiana Jones.

Palau è uno Stato giovane: indipendente dal 1994, già occupato dai giapponesi e amministrato dagli americani. Non ha vissuto sempre in pace: in una caverna sono rimasti i carburanti per gli idrovolanti militari usati durante la Seconda Guerra Mondiale, mentre una nave nipponica è affondata poco a largo di un isolotto.

Ma il destino dei luoghi di frontiera è anche la loro marginalità geopolitica: sul relitto sono cresciuti i coralli e le battaglie belliche hanno risparmiato le «case degli spiriti», con le pareti affrescate di figure animali. Nulla di esoterico: sono le costruzioni dove si riuniscono i capi dei villaggi, i garanti dei valori della tradizione.

Qui lo slancio del contemporaneo non ha dissolto la memoria dell’antico: gli anziani vengono sepolti nei cortili, per rimanere vicini ai loro cari; ai giovani, prima di uscire, si ricorda che le loro azioni ricadranno sull’intera famiglia, talmente presente, e solido, è il ruolo della comunità.

Le città sono porti con molti localini e solo un centro commerciale, ma senza nessuna delle grandi insegne globali. Giusto nella capitale, Ngerulmud, si sono fatti prendere la mano: hanno costruito un enorme campidoglio modello Casa Bianca o meglio Cuba, accerchiato da un lungo colonnato.Peccato che il solenne precipiti nel grottesco: bussandoci sopra, si scopre che le colonne sono vuote, finte come su un vecchio set di Cinecittà. Forse non c’erano abbastanza soldi o, più probabilmente, non ci credevano davvero.

Di Palau resta impresso l’understatement, l’equilibrio gentile, la voglia di semplicità: i serbatoi che raccolgono l’acqua piovana per dissetare gli abitanti; l’oceano a fare da generoso nutrimento. Non c’è ragione di esagerare o deturpare.

Si decolla con la malinconia della fine di un sogno, ma rispettando l’impegno di essere responsabili. Mantenendo la promessa d’inchiostro che rimarrà timbrata tra le pagine del passaporto: «Le uniche impronte che lascerò saranno quelle lavate via dal mare».

Autore
Panorama

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