Migranti, la convenzione sulle vittime di tortura è rimasta lettera morta: recepita nel 2017, ma molte Asl non sanno nemmeno che esiste
- Postato il 17 giugno 2025
- Diritti
- Di Il Fatto Quotidiano
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“Quando sono scappato dal mio Paese, il Mali, sono finito in Libia perché mi avevano offerto un lavoro lì. Non avendo alternative, ho accettato. Non avevo capito che in realtà ero stato venduto come schiavo. Una sera due uomini mi hanno chiuso in un posto dove ho visto cose a cui non avrei mai creduto se non le avessi viste con i miei occhi. Le vedevo e pensavo, ‘ecco, la mia vita sta per finire’. E a dire il vero, speravo che mancasse poco alla mia fine perché sentivo di non avere altra via d’uscita”. Moussa è arrivato in Italia nel 2014 e sono ormai diversi anni che ha imparato a raccontare della fuga dal suo Paese in guerra e delle torture subite in Libia. Ha il timbro fermo di chi ha lottato per riuscire a dare una forma all’indicibile e ha trovato nella parola la via per il riscatto. “In Italia, appena arrivato, sono stato a Genova. Lì ho scoperto dalle persone con cui vivevo che di notte nel sonno urlavo, ma io non me ne rendevo conto”. Dopo Genova è stata la volta di Roma dove per caso è entrato in contatto con il Centro Astalli, una delle poche realtà italiane che offrono supporto specifico alle vittime di tortura.
“Grazie a loro sono stato coinvolto in un progetto con le scuole per parlare della mia esperienza davanti agli studenti. Mi sono reso conto che raccontare mi liberava del peso di quello che avevo vissuto. Mi sono sentito meglio”. Ma a un caso d’eccezione come il suo si contrappongono le storie di centinaia di rifugiati che restano soli con i loro traumi, senza sapere a chi chiedere aiuto.
Eppure sulla carta l’Italia prevede che fin dall’arrivo sul territorio nazionale le strutture d’accoglienza collaborino con le aziende sanitarie e pianifichino “interventi adeguati a svolgere una funzione riparatoria rispetto alle conseguenze dei gravi traumi subiti”. Questo è in sintesi quanto emerge dalle linee guida per il trattamento delle vittime di tortura, varate nel 2017 dal ministero della Salute grazie al lavoro svolto dai principali attori nel campo dell’accoglienza, tra cui lo stesso Centro Astalli, Medici Senza Frontiere, Unhcr, Caritas e Asgi. A distanza di otto anni dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale di quelle direttive, tuttavia, le uniche regioni che le hanno formalmente recepite con propri provvedimenti sono state Lazio, Piemonte, Toscana, Marche ed Emilia-Romagna, mentre nel resto del Paese sono rimaste lettera morta.
“L’Italia ha firmato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, che all’articolo 14 stabilisce l’obbligo degli Stati di garantire la riabilitazione dei sopravvissuti, compresa l’assistenza medica e psicologica — dice Marco Bertotto, responsabile Advocacy Italia per MSF —. Ma il nostro Paese si è limitato a emanare delle linee guida che, nonostante le pressioni, non sono mai state implementate davvero su tutto il territorio nazionale. Non c’è una pianificazione reale di servizi dedicati alle vittime di tortura: ciò che esiste oggi sono iniziative isolate o partnership tra pubblico e privato, spesso guidate da realtà del terzo settore”.
Garantire un trattamento adeguato ai rifugiati che hanno subìto torture è fondamentale non solo sul piano psicologico, ma anche da un punto di vista legale. La certificazione delle violenze gioca infatti un ruolo chiave quando la commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale deve decidere o meno se rilasciare il visto di rifugiato, come spiega Silvia Rossi, operatrice del Naga, l’organizzazione di volontariato con sede a Milano che si occupa da decenni della tutela dei diritti sanitari e legali delle persone straniere. “Quando prepariamo qualcuno alla commissione per il riconoscimento della protezione internazionale e rileviamo possibili segni di tortura, organizziamo una visita con uno dei nostri medici, così da certificare la violenza. Le commissioni si dimostrano sensibili a questo aspetto e quindi è importante che esista una relazione che attesti ciò che il richiedente ha subìto, anche quando sul corpo non ci sono segni fisici evidenti. Ma le persone non arrivano mai qui dicendo ‘voglio fare una visita perché ho subito torture’ — spiega Rossi – Non sanno nemmeno che sia un’opzione. Tocca a noi, raccogliendo le loro storie, intuire che ci troviamo davanti a qualcuno che ha subito cose molto gravi e procedere con un percorso di certificazione attraverso i nostri medici”.
Quanto svolto dal Naga, però, dovrebbe essere in realtà messo in atto da un ambulatorio pubblico. “Nelle nostre certificazioni noi scriviamo in calce al documento che siamo costretti a proseguire nella nostra attività di volontariato per sopperire alle mancanze del settore pubblico che dovrebbe garantire il servizio di attestazione di tortura perché è ciò che è previsto dalle linee guida del 2017. A distanza di tanti anni, tuttavia, non sono nemmeno sicura che quelle direttive siano state trasmesse a tutte le aziende sanitarie”.
Interpellate attraverso un sondaggio, la maggior parte delle ASL sul territorio nazionale non ha fornito alcuna risposta, mentre 18 delle 28 aziende sanitarie che hanno risposto hanno dichiarato di non aver mai ricevuto le linee guida per il trattamento delle vittime di tortura. Un dato che evidenzia la frammentazione e le gravi lacune nei servizi che dovrebbero garantire supporto psicologico a chi ha subito violenze.
In questo scenario, è il mondo delle associazioni a farsi carico, in gran parte, del recupero psicologico dei rifugiati, appoggiandosi per lo più a fondi provenienti da fondazioni private o a progetti FAMI (Fondo Asilo Migrazione e Integrazione), che però non consentono di costruire percorsi di sostegno duraturi. Lo psichiatra Fulvio Bonelli, dell’associazione Marco Cavallo di Torino, sottolinea come queste carenze stiano diventando sempre più evidenti, man mano che la tortura assume caratteristiche sistematiche per via delle modalità con cui viene praticata. “Ormai dire Libia significa dire tortura. Chi passa di lì ha subìto gravi traumi in praticamente tutti i casi – spiega Bonelli – abbiamo ascoltato storie di persone che sono state appese agli infissi e a cui i trafficanti hanno dato la scossa, oppure appese per i piedi per far colare la cera delle candele accese sulle loro schiene”. Le violenze spesso vengono effettuate in collegamento telefonico con la famiglia, affinché i parenti, sentendo i lamenti del proprio caro in diretta, accettino di dare i soldi. “L’obiettivo finale dei torturatori è quello di chiedere il riscatto alle famiglie. Per questo la violenza nei luoghi di detenzione nei Paesi di transito sta diventando una pratica sempre più estesa e sistematica”.
Questo articolo fa parte dell’inchiesta condotta da Linda Caglioni e Lucrezia Lozza e sostenuta da Journalismfund Europe
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