Moda, viaggio nel lato oscuro del fashion tra sfruttamento e caporalato

  • Postato il 25 luglio 2025
  • Di Panorama
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Antoine Arnault e Wang Wei non si conoscono. E con tutta probabilità non si incontreranno mai. Uno è francese, vive a Parigi e possiede una villa da 19 milioni di euro a Saint-Tropez. L’altro è cinese, opera e dorme in un capannone alla periferia di Milano. Eppure, i due hanno una cosa in comune: il marchio di moda Loro Piana, ora in amministrazione controllata.

Un presidente e un operaio, dentro lo stesso brand

Il primo è figlio di Bernard, il dominus del maxi-polo del lusso francese Lvmh, che ha in portafoglio pezzi da novanta come Louis Vuitton, Fendi, Bulgari e, appunto, il gruppo del cashmere italiano di cui Antoine è presidente. Il secondo lavora invece per la Clover Moda di Hu Xizhai, azienda a cui proprio la storica casa di moda si trova a subappaltare i lavori di sartoria. Wang lavora 13 ore al giorno, dalle 9 del mattino alle 22 di sera. Ha solo mezz’ora di pausa pranzo e mezz’ora per cena. Quando ad aprile lo ha segnalato al superiore, sostiene di aver ricevuto un pugno in faccia e una bastonata alla testa con un tubo di plastica. È grazie alla sua denuncia se ai primi di maggio scorso il nucleo Tutela del lavoro dei Carabinieri ha deciso di fare visita ai capannoni di Baranzate. Wang li aveva avvertiti: Hu avrebbe dato ordine ai dipendenti di scappare nel caso si fossero presentati in azienda persone straniere diverse dai clienti abituali. Ma i consigli non sono bastati. E sono stati scoperti.

Una storia globale di sfruttamento nel lusso

La storia di Wang sembra essere una delle tante che caratterizza questo universo. Non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Da anni le case del lusso sembrano infatti giocare a rimpiattino con la trasparenza quando si tratta di fornire informazioni sulle loro catene di fornitura e produzione. «I casi che man mano vengono a galla e i problemi che svelano hanno carattere strutturale e sono profondamente radicati nel sistema fashion italiano e internazionale», spiega a Panorama Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale di Campagna abiti puliti, sezione dell’internazionale Clean clothes campaign. Un modus operandi che pare difficile da cambiare. «Dalle nostre indagini non risulta che alcun brand abbia, per esempio, attuato politiche commerciali in grado di garantire a tutti i lavoratori e lavoratrici della filiera un salario minimo dignitoso. Senza la sicurezza di una paga giusta e la garanzia del rispetto dei diritti fondamentali, a partire da quello della libertà di associazione, nessun cambiamento è possibile e qualunque protocollo etico resta un esercizio formale».

La Procura di Milano e il lato che non sfila

La Procura di Milano, con il pm Paolo Storari, da ormai più di un anno sta portando avanti una battaglia che ha costretto molte aziende a mettere in regola migliaia di occupati e a versare centinaia di milioni di euro al fisco. È l’altra faccia della moda. Quella che non sfila. Quella che produce. Quella che sfrutta. Al centro ci sono le grandi griffe del lusso, alcune delle quali rappresentano l’eccellenza del Made in Italy, come Alviero Martini, Giorgio Armani, Loro Piana, Valentino e Dior. Sullo sfondo, l’occupazione irregolare, la clandestinità, l’elusione sistematica delle norme sul lavoro. E soprattutto, una prassi: produrre al minor costo possibile, anche a prezzo della dignità umana, salvo vendere a prezzi esorbitanti.

Il meccanismo del subappalto e lo schema cinese

Le indagini condotte dal nucleo Ispettorato del lavoro dei Carabinieri hanno fatto emergere uno schema ricorrente e strutturato. I grandi marchi, attraverso contratti di appalto, affidano la produzione ad aziende formalmente dotate di mezzi produttivi, ma che in realtà non possiedono capacità industriale reale. Queste aziende subappaltano a loro volta il lavoro a opifici cinesi, dove si utilizzano lavoratori irregolari, spesso in condizioni al limite della schiavitù. Al centro delle accuse ci sono vari casi di sfruttamento e caporalato, nient’altro che il reclutamento illecito di persone con l’obiettivo di sfruttarle.

Rotazione degli operai, ordini diretti e consapevolezza

Gli stessi sarti passano da un laboratorio all’altro, con turni estenuanti e compensi da fame. In molteplici casi, i conduttori di questi laboratori reclutano connazionali clandestini, privi di alternative. Non solo: sono loro stessi a ricevere istruzioni operative direttamente dalle aziende appaltatrici, segno che le case di moda sono spesso consapevoli dell’origine della propria forza lavoro. Le inchieste possono servire a cambiare qualcosa, ma poi tocca anche al legislatore intervenire. Secondo Lucchetti: «Occorrono norme vincolanti per obbligare le imprese a rispettare regole e diritti lungo l’intera catena di fornitura, come vuole la direttiva sulla dovuta diligenza approvata l’anno scorso dal Parlamento europeo». Peccato, però, che «la direttiva sia oggi sotto attacco da parte delle stesse istituzioni europee che l’hanno approvata; con il pacchetto Omnibus dietro la bandiera della competitività e della semplificazione, la Commissione europea vuole svuotarla totalmente di efficacia», spiega ancora Lucchetti.

Due euro l’ora per una giacca venduta a tremila

Per dare un ordine di grandezza, secondo l’ultima inchiesta, la manodopera clandestina in alcuni casi veniva retribuita con 2-3 euro l’ora. Una giacca realizzata in queste condizioni può essere rivenduta a prezzi dieci, venti, cinquanta volte superiori. Loro Piana si difende e in una nota dice di condannare «fermamente qualsiasi pratica illegale e ribadisce il proprio continuo impegno nella tutela dei diritti umani e nel rispettare tutte le normative vigenti lungo l’intera filiera produttiva». D’altra parte, quanto vale una giacca di alta moda? Sul mercato può superare i 3 mila euro, ma per chi la produce materialmente il suo valore si ferma sotto i novanta. Sfogliando i margini operativi documentati da Loro Piana, Armani, Dior e Alviero Martini emergono cifre che riflettono il lato oscuro del lusso.

L’inchiesta e i margini del profitto sul lavoro povero

Nel caso di Loro Piana, uno dei fornitori ha spiegato agli inquirenti come funzionava lo schema. E soprattutto da quanto tempo andava avanti. «Ho iniziato a produrre per Loro Piana dall’anno 2000 e all’inizio producevamo 200 giacche a stagione. Poi gli ordini sono aumentati fino ad arrivare a 3 mila giacche a stagione». E poi: «Il costo pattuito era di 118 euro a giacca per commesse oltre 100 capi, 128 se inferiore; io pagavo alle società cinesi 80 euro senza taglio, 86 euro con taglio, con oscillazioni di 5–10 euro». Ciò significa che tra il prezzo riconosciuto dal committente (via intermediari) e il costo ai subappaltatori, si generava un margine lordo tra 30 e 48 euro a capo, a seconda delle lavorazioni. «Preciso inoltre», ha aggiunto uno dei fornitori agli inquirenti «che emissari della Loro Piana sono venuti presso la mia azienda diverse volte a fare verifiche sulla produzione, che vi consegno».

Il margine annuo e la compressione dei diritti

Applicato a volumi annuali che variavano tra 6 mila e 7 mila giacche (ridotti a circa 2 mila nella stagione primavera-estate 2025), questo meccanismo ha prodotto margini complessivi intorno ai 210 mila euro annui nei periodi di piena attività. Un profitto che, secondo gli inquirenti, veniva ottenuto in gran parte comprimendo i diritti dei lavoratori impiegati nella produzione. Nei laboratori cinesi in subappalto, infatti, un sarto come Wang percepiva 1.500 euro al mese lavorando 13 ore al giorno, senza riposi settimanali. La retribuzione effettiva risultava così inferiore a 4 euro l’ora, con dormitori annessi agli spazi di lavoro, in condizioni descritte come gravemente lesive della dignità.

Dior, Lvmh e il profitto oltre i diritti

Una dinamica simile emerge anche nel caso Dior. Secondo gli atti, si tratta di una «prassi inserita in una politica d’impresa esclusivamente diretta all’aumento del profitto», in cui le maison – pur conoscendo la filiera tramite audit – avrebbero tollerato pratiche che permettevano di conservare un margine di 30–40 euro a capo proprio grazie al taglio dei costi sul lavoro. Giacca dopo giacca, capi prodotti a 80–90 euro, sfruttando manodopera sottopagata, arrivano in boutique a prezzi compresi tra i mille e i 2 mila euro. Una volta coperte le spese di marketing, distribuzione e logistica, resta evidente che una parte consistente del valore generato lungo la filiera deriva direttamente dallo sfruttamento.

Fatturati miliardari e catene opache

Sul piano finanziario, questi margini si inseriscono in contesti di grandi performance. Loro Piana, controllata da Lvmh, avrebbe superato la soglia di 2–3 miliardi di euro (queste sono le stime) di fatturato nel 2024, con il report 2023 che ha già segnato ricavi oltre 1,2 miliardi. Armani Group ha registrato ricavi netti per 2,3 miliardi di euro nel 2024, in calo del 5 per cento a cambi costanti, con Ebitda di 398 milioni, in discesa del 24 per cento rispetto ai 523 milioni dell’anno precedente. Per il gruppo Lvmh, che include Dior e Loro Piana, il 2024 si chiude con ricavi per 84,7 miliardi di euro, un calo del 2 per cento rispetto al 2023, e un “profit from recurring operations” di 19,6 miliardi, con margine operativo del 23,1 per cento.

Utili che nascono dallo sfruttamento

Confrontare questi numeri con i margini sul lavoro clandestino chiarisce come lo sfruttamento, strutturale e tollerato, alimenti direttamente i risultati finanziari: milioni di utili nascono dalla compressione del costo del lavoro in filiere opache, rivelando quanto il lusso possa ancora contare su una contabilità che ignora i diritti.

La cultura d’impresa nel mirino della giustizia

Nel caso di Alviero Martini S.p.A., commissariata nel gennaio dello scorso anno, il decreto parlava di una «prassi illecita così radicata da essere parte di una politica d’impresa volta all’aumento del business». Il Tribunale sottolineava che l’azienda non poteva ignorare: «vi è una cultura d’impresa gravemente deficitaria sul controllo, anche minimo, della filiera produttiva».

La stessa valutazione è emersa per Giorgio Armani Operations S.p.A, sempre nel 2024. La Procura ha evidenziato come le attività produttive esternalizzate fossero affidate a soggetti che usano manodopera irregolare. E ha sottolineato l’assenza di controlli reali da parte della casa madre: «nella Giorgio Armani Operations vi è una cultura d’impresa deficitaria […] prassi illecita così radicata da poter essere considerata parte della politica aziendale». Entrambe le aziende hanno terminato la fase di commissariamento.

Il caso Dior e la normalizzazione dell’illegalità

Il quadro è simile anche per Manufactures Dior S.r.l., controllata da Lvmh e finita sui tavoli della giustizia nel febbraio scorso. Il Tribunale parla ancora una volta di «prassi illecita così radicata da essere parte di una politica d’impresa esclusivamente rivolta al profitto». Le pratiche illecite, secondo i giudici, «vengono accettate e in certo modo promosse, in quanto considerate normali».

Autore
Panorama

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