Nato e governi puntano al riarmo Ue con l’aiuto dei media, ma i popoli non se la bevono: disarmiamoli!

  • Postato il 20 giugno 2025
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Il 9 giugno Mark Rutte, ex primo ministro liberale dell’Olanda e oggi Segretario Generale della Nato, è al centro studi britannico Chatham House. È perfettamente a suo agio. Dispensa sorrisi. Ride di gran gusto. Lo fa anche quando afferma che “se non aumentiamo la spesa in Difesa al 5% – con un 3,5% di base – potremo conservare la nostra Sanità e le nostre pensioni, ma sarà meglio che impariamo a parlare russo. Questa è la conseguenza. La verità può rendere nervose le persone, ma bisogna renderle nervose”.

Dev’essersi sentito brillante. Ha fatto la battuta. Ride mentre ribadisce ciò che ormai sappiamo tutte e tutti: al summit de L’Aia del 24 e 25 giugno, la Nato “chiederà” ai 32 Paesi membri un impegno senza precedenti: il 5% del Pil in armi e Difesa, come vuole il “pacifista” Donald Trump. E tutti i 32 governi scatteranno sugli attenti e obbediranno. Tutti: dai “progressisti” all’ultradestra, passando per l’estremo centro liberale. Governo Meloni compreso. La sovranità della politica estera, i famosi “interessi nazionali” si possono tranquillamente sacrificare sull’altare di Washington e Nato. Per bocca del “ministro della Guerra” Crosetto, il governo italiano ha già fatto sapere che “è ragionevole fissare il traguardo al 2035, con un aumento massimo dello 0,2% l’anno” perché “il nostro compito è rispettare gli impegni Nato e gli assetti richiesti” per “costruire un futuro sistema di difesa europea, basato sugli stessi criteri e principi della Nato” (Corsera, 15 giugno 2025).

Chissà se Crosetto si riferisce agli stessi “principi” che hanno guidato la Nato quando smembrò la Jugoslavia nel 1999, distrusse la Libia nel 2011, bombardò più volte feste di matrimonio in Afghanistan negli anni Duemila…

“Ce lo chiede la Nato” è già oggi il nuovo mantra dei nostri governanti.

Ma che significa raggiungere il 5% del Pil in spese militari? Concretamente una cifra tra i 44 e i 77 miliardi di euro in più all’anno rispetto a quanto l’Italia spende già oggi. Più di due manovre di bilancio. Fino a raggiungere una cifra che non si discosta troppo da quella stanziata per la Sanità. Hanno eliminato il reddito di cittadinanza perché 7 miliardi per sostenere disoccupati e lavoratori poveri erano troppi; nelle scuole sempre più spesso la carta igienica la devono portare docenti e famiglie; gli stipendi del personale sanitario non si possono alzare (così che c’è oggi una fuga all’estero di infermieri e medici), perché bisogna tenere in conto il pareggio di bilancio; insomma, mai un euro per i bisogni di milioni di persone, però ora che c’è da foraggiare il complesso militare-industriale e obbedire alla Nato i soldi escono fuori a volontà.

È per la nostra sicurezza, si capisce. Quando avremo bisogno di una visita e ci sarà una lista d’attesa per cui la prima data possibile sarà dopo un anno e mezzo, ci rallegreremo perché vabbè, forse non ci sarà nemmeno la Tac, ma vuoi mettere un bel tank Leopard proprio lì davanti al pronto soccorso (magari chiuso)?

Serve riarmarsi, ci ripetono. Perché siamo in pericolo. Per mano della Russia e della Cina, non certo di un Paese che clandestinamente ha sviluppato l’arma atomica, senza aderire al TNP (Trattato di Non Proliferazione nucleare) – Israele; di un Paese che prosegue nel genocidio a Gaza, che ha già ucciso più di 50mila persone e si diverte ad allestire “hunger games” sulla pelle del popolo palestinese; di un Paese che ha avviato un attacco illegale e criminale contro l’Iran. Anzi, Netanyahu si è meritato i ringraziamenti del cancelliere tedesco Merz che, squarciando il velo di ipocrisia, ha dichiarato che “[l’attacco all’Iran] è il lavoro sporco che Israele sta facendo per tutti noi”.

L’attacco all’Iran non è solo israeliano. Israele è solo il killer di una banda armata assai più numerosa.

Il 5% del Pil in armi che imporrà la Nato, gli 800 miliardi del ReArm Eu di von der Leyen, i propositi di “difesa comune europea” dei progressisti di casa nostra, vanno nella stessa direzione: “disegnare un modello di relazioni che ci permetta di mantenere questa posizione di privilegio [50% della ricchezza mondiale, ma solo il 6,3% della popolazione] senza pregiudicare la nostra sicurezza”. Sono le parole che George Kennan mise nero su bianco nel 1948 e che spiegano perché gli Usa inventarono la creatura Nato. Bisogna cioè difendere il “giardino” dalla “giungla”, per usare le parole dell’ex Alto Commissario alla Politica Estera dell’Ue, il socialdemocratico spagnolo Josep Borrell.

I loro piani incontrano però un ostacolo. La propaganda bellicista i popoli se la bevono sempre meno. E loro dell’adesione dei nostri popoli ai piani di riarmo hanno bisogno. L’ammiraglio Cavo Dragone, presidente del Comitato militare della Nato, lo spiega così: “Un aspetto cruciale è il pieno coinvolgimento e sostegno da parte delle opinioni pubbliche […]”. L’opinione pubblica è la posta in gioco della guerra psicologica. Decisivo è il potere mediatico che prova a diffondere la paura affinché un popolo impaurito reclami a gran voce più armi. Così un giorno la Finlandia “è il prossimo fronte” (Repubblica, 20 maggio 2025, pag. 4) e il nuovo capo delle forze armate russe, Mordvichev, “vuole riportare Mosca alla potenza dell’Urss” (ancora Repubblica del 20 maggio 2025), un altro “la spesa [militare] va aumentata in tempi di pace, diversamente sarà sempre troppo tardi. L’Europa corre un grande rischio” (Kaja Kallas, La Stampa, 13 giugno 2025, esplicitando che “vorrei parlare alla vostra opinione pubblica”).

Questi sforzi, per ora, non funzionano. Tuttavia, il rifiuto del riarmo e del principale attore che lo impone, la Nato, la convinzione che Israele vada fermato e che i soldi vadano spesi per i bisogni popolari, non per riempire i portafogli di Leonardo & Co., devono però uscire dal privato o dal virtuale di un post social e darsi le gambe per diventare movimento antimilitarista.

“Disarmiamoli!” è parola d’ordine che deve farsi battaglia delle idee e pratica quotidiana: non siamo né soli né impotenti, come vorrebbero “loro”; al contrario, come ci hanno dimostrato i portuali di Marsiglia, Tangeri, Genova che, superando le barriere nazionali e linguistiche, hanno coordinato azioni di embargo militare dal basso contro carichi di armi pronti a rifornire il genocidio israeliano.

E proprio con loro saremo in piazza il 21 giugno alle 14:00 a Piazza Vittorio a Roma. Non sarà l’alternanza tra ultradestra e centrosinistra – che per primo, con Renzi e Conte, ha firmato prima e confermato poi l’attuale impegno del 2% del Pil in armi con la Nato – ma un campo popolare organizzato a poter rompere la spirale di guerra e riarmo.

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