’Ndrangheta, sul Tirreno e in tutta la Calabria i cittadini non facciano finta di niente

  • Postato il 12 giugno 2025
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’Ndrangheta, sul Tirreno e in tutta la Calabria i cittadini non facciano finta di niente

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«Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici […] e questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Palermo». È difficile dimenticare queste parole del cardinale Pappalardo – storico arcivescovo metropolita di Palermo per un quarto di secolo –, pronunciate durante l’omelia per il funerale del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il 4 settembre 1982. Sono gli anni della seconda guerra di mafia, una feroce mattanza, che vede l’affermazione del clan dei Corleonesi di Riina, Provenzano e Bagarella sugli storici gruppi criminali dei Bontate, Inzerillo, Buscetta e Badalamenti. Una città insanguinata, in cui il dominio di Cosa nostra è pressoché totale.

L’alfabeto del presule nativo dell’Agrigentino resta, a distanza di più di quarant’anni, una testimonianza (purtroppo) ancora spendibile per denunciare la pervasività criminale in molti territori meridionali, a partire dalla nostra Calabria, nonostante le significative risposte dello Stato, soprattutto in ambito repressivo, grazie al lavoro delle procure antimafia e delle forze dell’ordine, che agiscono spesso nell’indifferenza – quando non aperta ostilità – dei cittadini e di segmenti cosiddetti ‘garantisti’ della società civile.

È vero, le mafie nostrane – soprattutto la ’ndrangheta – sono riuscite ad espandersi a livello globale, in ogni continente. Sono diventate pienamente strutture economiche e finanziarie del capitalismo elettronico e informatico, realizzando in tal modo, la profezia di Pino Arlacchi che nel 1983 scrive “La mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo”. Il sociologo calabrese spiega proprio in quegli anni la trasformazione del sistema mafioso da strumento di mediazione degli interessi padronali (polizia dei ceti dominanti) a organismo socioeconomico vitale in grado di produrre e accumulare ricchezza illecita attraverso la quale contaminare l’economia legale, fino a esercitare su di essa una influenza davvero rilevante (grazie all’industria del riciclaggio).

Malgrado queste dinamiche evolutive su scala planetaria, le mafie non mollano affatto la morsa – che è invero sempre più soffocante – sulle regioni che ne hanno determinato nascita e ascesa.
La Calabria resta una terra di ’ndrangheta – e i fatti delle ultime settimane accaduti a Cetraro lo dimostrano chiaramente –, anche se la cosa disturba gli addetti al marketing politico-comunicativo che confondono (ma ne sono colpevolmente coscienti) la pubblicità con la realtà di una regione (sempre più) inginocchiata ai poteri criminali di matrice massomafiosa. Senza il dominio assoluto sui territori nativi, le mafie, e la ’ndrangheta in particolare, non manterrebbero ad esempio né la loro struttura di potere militare, con il rischio di perdere posizioni (e molti denari) nella gestione del narcotraffico, né la loro capacità elettorale che è lontana (ad oggi) dall’essere scalfita.

Potrebbe sembrare eccessivo raccontare Cetraro come la Palermo degli anni Ottanta? Ovviamente sì. È una provocazione. Ci sono differenze evidenti che è pleonastico discutere. Eppure, per alcuni aspetti, non siamo del tutto lontani, come in tante (troppe) realtà calabresi, né da quel clima di profonda omertà e connivenza, né dall’esercizio plastico e pubblico di una violenza così feroce e spudorata – come quella dei Corleonesi – che si manifesta quale potere sovrano assoluto al quale non è possibile replicare. Tra silenzi e complicità, paure e contiguità, il peso della ’ndrangheta non è affatto marginale nel Tirreno cosentino, che si conferma invero laboratorio criminale di violenza e morte ma anche di relazioni opache e grigie che investono, in modo crescente, diversi settori della borghesia produttiva.

La cosca Muto, storica ’ndrina del Cosentino impermeabile al fenomeno del pentitismo, è attraversata da una rimodulazione delle proprie gerarchie interne e dei relativi rapporti di forza. È da tempo sulle scene giudiziarie una generazione di trentenni e quarantenni che stanno evidenziando una non trascurabile caratura delinquenziale che ambisce alla leadership del sistema criminale di tutto il Tirreno Cosentino (traffico di droga, estorsioni, appalti, riciclaggio).
Magistratura e forze dell’ordine reagiranno, ancora una volta. Ma se vogliamo davvero contrastare la ’ndrangheta, questa volta i cittadini e le cittadine non devono nascondere la testa sotto la sabbia, e far finta di niente. A Cetraro, come a San Luca. Ovunque. Noi siamo ciò che decidiamo di essere. Basta con la sudditanza ai mafiosi, di ieri e oggi. Per non diventare come loro. Per vivere, finalmente, in una terra libera che non si nutra più di pane e omertà.

*Docente di Pedagogia
dell’antimafia all’Unical

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