Né onore né gloria nella guerra di Putin. Il commento di Polillo
- Postato il 8 giugno 2025
- Esteri
- Di Formiche
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A una brillante azione di guerra, qual è stata quella condotta da Volodymyr Zelensky contro obiettivi militari, Vladimir Putin ha risposto intensificando gli attacchi contro obiettivi civili. L’operazione Pavutyna (in ucraino: ragnatela) aveva nel mirino diversi aeroporti russi, dislocati in varie aree del Paese, al fine di distruggere il maggior numero possibile di aerei. In precedenza, utilizzati in raid contro le strutture civili dell’Ucraina. Ma, al tempo stesso, facenti parte della flotta dei bombardieri che, in caso di guerra, sono in grado di trasportare ogive nucleari.
Importanti i risultati raggiunti: una quarantina di questi velivoli distrutti o danneggiati. Stando a quanto riferito dal Servizio di sicurezza ucraino (Sbu) si tratterebbe di più di un terzo dei vettori missilistici russi. Tra i quali gli A-50, i Tu-95 e i Tu-22 M3. I Tupolev 95, 22 e 160 sono bombardieri regolarmente utilizzati da Mosca per lanciare missili contro l’Ucraina. Il Tu-22M3 è in grado di trasportare missili da crociera Kh-22 e Kh-32, che viaggiano a una velocità di 4.000 chilometri orari, superando il Mach 4. A sua volta l’A-50 è un aereo da rilevamento radar, in grado di individuare i sistemi di difesa aerea, i missili guidati e di coordinare gli obiettivi per i caccia russi. Il danno complessivo, inferto al nemico, ammonterebbe a oltre 6 miliardi di dollari.
Basterebbero questi semplici riferimenti per dimostrare lo scorno della dirigenza russa. Alla difficoltà di rimediare, a causa dell’isolamento del Paese, per ripristinare la situazione antecedente l’attacco, si è accompagnata la spettacolarità dell’azione. Le basi colpite sono state quelle di Dyagilevo, nella regione di Riazan, e di Ivanovo, nella regione omonima, quindi quella aerea di Belaya, nella regione di Irkutsk, che si trova in Siberia a oltre 4.000 chilometri dal confine ucraino, e la base aerea di Olenya, nella regione di Murmansk, a circa 2.000 chilometri dall’Ucraina. A dimostrazione di quanto la Russia, perforabile in lungo e largo, fosse vulnerabile.
Non si dimentichi ch’essa è l’entità statale più estesa del mondo (oltre 17 milioni di chilometri quadrati, quattro volte quella dell’Unione europea). Ma con una popolazione di poco più di 149 milioni di abitanti, pari a un terzo di quella dell’Unione Europea. Confronti che dimostrano le follie sottese alla cosiddetta “operazione militare speciale”. Quelle centinaia di migliaia di morti, che si sono già avuti, avrebbero come motivazione la conquista di un piccolo lembo di terra, da unire a un territorio sterminato. La cui densità abitativa in molti casi, come nella Siberia, è appena pari a tre abitanti per chilometri quadro. La semplice verità è che ben altre sono state le motivazioni del Cremlino. Come, del resto, ha recentemente riconosciuto lo stesso Putin, rispondendo a Donald Trump: altro che lite tra bambini, “per noi è una guerra esistenziale”.
A un’azione che sembra essere tratta da un film d’avventura, la Russia ha risposto con la solita brutalità. Lanciando, la notte successiva contro molte città dell’Ucraina compresa Kiev, 407 droni insieme a più di 40 missili balistici e da crociera, nell’attacco aereo più massiccio dall’inizio della guerra. Se si guarda alle statistiche dell’orrore, è forse facile constatare come, finora, le vittime tra i civili siano state forse maggiori di quelle tra i reparti combattenti. Non si raggiunge, certo, la soglia di Gaza, ma il segno è inequivocabile. A dimostrazione di quanto la disumanità possa accompagnare quelle strategie che mirano a imporre cambiamenti nella sfera geopolitica mondiale, ricorrendo esclusivamente alle logiche della morte.
Nel caso della Russia, tuttavia, c’è qualcosa di più. Nella lunga tradizione storica di quel Paese, il mito della “guerra patriottica” aveva una forza e una suggestione innegabile. Era stata la molla che aveva consentito a un popolo di contadini di resistere prima alle armate napoleoniche e successivamente a quelle naziste. Stalingrado era così diventata non solo un punto fermo della storia russa, ma il simbolo della resistenza di David contro Golia. Quasi una ricorrenza universale in cui le forze del bene riuscivano ad arginare e poi sconfiggere la forza bruta di chi voleva dominare, sopraffacendo.
Oggi non è più così. La brutalità che si è riscontrata negli eccidi di massa di centinaia di innocenti, a Bucha o a Izjum; nell’uso non necessario di ordigni da tempo banditi, come le bombe a grappolo; nella pratica di forme rivoltanti di torture verso prigionieri e civili, non fa parte di quella tradizione. Riflette, semmai, altri momenti della storia del Novecento. Ricorda la repressione dell’Ungheria, da parte dell’Armata rossa, nel 1956; o l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968. Per non parlare, infine, della costruzione del muro di Berlino al fine di creare quella prigione a cielo aperto che, per anni, chiuse ogni spazio di comunicazione tra le due Germanie. E che ancora oggi pesa, ricordo indelebile, nella coscienza di quel Paese.
Se Putin, come si è detto in precedenza, afferma che quella dell’Ucraina è “una guerra esistenziale” bisogna credergli. Ma anche prendere le misure necessarie, affinché il fantasma del Novecento non torni a turbare i sonni delle nuove generazioni. Tutti i dati a nostra disposizione dicono che il disegno restauratore di Putin è puramente velleitario. La Russia non ha la forza per imporre con le armi la sua egemonia sul vecchio continente.
Non ha gli uomini, sebbene lo sforzo di accrescere il suo potenziale offensivo – fino a un milione e mezzo di effettivi, stando alle voci – sia consistente. Ma non ha neanche una struttura economica in grado di supportare un simile sforzo. Certo ha gli arsenali nucleari. Ma chi si avventura lungo quel sentiero firma anche la propria condanna a morte. La storia recente dimostra, infatti, che quegli arsenali possono servire solo da deterrente. Come in passato, occorrerà, pertanto, avere a disposizione più uomini e mezzi convenzionali, per vincere le battaglie. Soprattutto la convinzione di stare nel giusto. Perché la debolezza di ogni esercito, come ricordava Berthold Brecht, in una sua vecchia poesia, sta nel fatto ch’esso è composto da uomini. E che questi possono pensare.