New York, Londra, Torino: dal medioevo di Genova un blitz nel futuro, a 30 anni la vita è sogno

  • Postato il 12 ottobre 2025
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I ricordi delle mie esperienze a New York e Londra, fra il 1967 e il 1974, per poi approdare a Torino, hanno una doppia valenza.

Sul piano personale, furono anni di crescita. Uscire da Genova , in quegli anni ancora arretrati, fu come se un bambino delle elementari andasse a Harvard.

L’Italia era alla vigilia di grandi cambiamenti, ma ancora non lo sapevamo.

Porterò un esempio che ha molti sembrerà stupido e banale, ma che invece per me da il segno della differenza tra i due mondi.

Nei grandi paesi dell’Occidente c’era l’abitudine consolidata dell’orario continuato, dalle nostre parti si faceva ancora l’intervallo lungo di due ore, che consentiva alla gente di andare a casa a farsi il suo piatto di pasta e magari anche un sonnellino.

L’esperienza professionale fu invece abbastanza deludente. I corrispondenti italiani all’estero, almeno a quei tempi, erano afflitti da una strana malattia, una forma di snobismo che gli faceva sentire superiori al resto del mondo.

In realtà lavoravano poco, usando soprattutto le fonti locali, i giornali e le agenzie di stampa inglesi e americane. Un mito di quei tempi era Ugo Stille, corrispondente da New York del Corriere della Sera, del quale in futuro sarebbe stato anche direttore. I colleghi dicevano che si Stille era bravo ma che era facile essere bravo avendo a disposizione gli articoli in tempo reale che sarebbero usciti il mattino dopo sul New York Times nella cui sede il corrispondente del Corriere lavorava in base a un accordo fra le due aziende.

Bernardo Valli, un mito

New York, Londra, Torino: dal medioevo di Genova un blitz nel futuro, a 30 anni la vita è sogno, nella foto bernardo valli
New York, Londra, Torino: dal medioevo di Genova un blitz nel futuro, a 30 anni la vita è sogno – BlitzQuotidiano.it (Bernardo Valli, foto da video)

Personalmente, ricordo due eccezioni, Bernardo Valli e Ezio Mauro. Valli con base a Parigi copriva soprattutto l’oriente: conosceva bene quelle terre per averle percorse con i suoi scarponi da legionario in gioventù.

Ero a Parigi la sera in cui fu annunciata la nomina di Boutros Ghali a segretario generale dell’ONU. Era anche lui a Parigi in quei giorni, Valli lo conosceva, gli telefonò ed ebbe l’intervista quella sera stessa.

L’esperienza di Mauro, come corrispondente da Mosca per Repubblica fu di soli due anni perché poi fu chiamato a fare il vicedirettore della Stampa di Torino.

Ma in quei due anni, fra i peggiori del periodo post sovietico, Mauro diede il meglio di sé, lavorando all’ombra del Cremlino come aveva fatto da cronista a Torino e poi a Roma.

Il suo rivale e metro di paragone non era il collega del Corriere della Sera ma David Remnick, allora corrispondente del Washington Post e, successivamente, e fino ancora ad oggi, direttore del New Yorker.

Andai a trovarlo a Mosca in quel periodo e potei constatare di persona che diavolo di corrispondente fosse Mauro.

Anche umanamente i corrispondenti italiani dall’estero soffrivano di una strana malattia di supponenza e di arroganza. Mai un invito per una birra o per un caffè, meno che mai per una cena. L’unico grande generoso fu Luigi Forni, negli ‘70 corrispondente da Londra per il Resto del Carlino e la Nazione.

Forni, un grande amico

Forni era un grande personaggio e la sua amicizia mi ha onorato fino al giorno della sua scomparsa. Era napoletano, e del napoletano aveva tutta la saggezza millenaria. Aveva conteso con le sorelle e i cognati, un enorme statua di San Gennaro in argento che troneggiava del corridoio di casa sua a Londra. Ma Napoli non ci torno mai.

Prima di Londra era stato a Bonn. E prima ancora a Roma, nella redazione del Mattino di Napoli, dove era stato trasferito a seguito dell’assunzione dopo un lungo tirocinio partenopeo.

All’epoca, Mattino di Napoli, Gazzetta del Mezzogiorno di Bari e Gazzetta del Popolo di Torino avevano un accordo di scambio di articoli dall’estero e dall’Italia. Un casuale incontro in un ristorante di Roma determinò la svolta della carriera di Luigi Forni.

Forni aveva invitato a pranzo una impiegata dell’ambasciata tedesca. A tun tavolo vicino era seduto Ugo Zatterin, futuro commentatore della televisone della Rai monocanale, all’epoca notista politico della Gazzetta del Popolo, col direttore della stessa Gazzetta.

Forni li adocchiò he disse sottovoce alla ragazza: “Parlami in tedesco, io fingerò di capire, rispondendoti”.

Zatterin ne fu colpito anche se sul momento non lo diede intendere. Ma quando qualche mese dopo il corrispondente da Bonn della Gazzetta si  dimise, Zatterin se ne ricordòyaqq e al direttore disperato per la sostituzione, disse semplicemente: “Perché cercare, abbiamo Forni che sa il tedesco”.

Con un pizzico di vanagloria, molti anni dopo, nella mia casa a Roma, feci rincontrare Forni e Zatterin, nel frattempo diventati entrambi i miei amici. Fu un momento simpatico e commovente.

Fu in  quel periodo che Caracciolo decise di lanciare un quotidiano tutto abruzzese, il centro di Pescara. Mario Lenzi aveva scelto come uomo macchina del nuovo giornale, un grande e misconosciuto della nostra editoria. Carlo Pucciarelli. Tuttavia Lenzi temeva l’impatto di un comunista in una regione molto molto bianca e mi chiese un suggerimento per un direttore moderato da inserire a capo dell’operazione.

Zatterin era rientrato nel grande gioco delle direzioni, assumendo quella del Tg2 della Rai. Proposi il suo nome e Lenzi lo gradì. Così Zatterin per tre anni visse a Pescara contribuendo non poco alla diffusione del giornale, data la sua notorietà televisiva.

Il 29 gennaio 1974, 51 anni fa, aveva inizio la mia nuova vita a Torino. Il 6 giugno 1984, 41 anni fa, aveva inizio la mia nuova vita a Roma.

Fra queste due date si colloca il più bel periodo della mia vita: avevo trent’anni e a quell’età la vita è sempre meglio che a 80.

Resta il fatto che comunque Torino è davvero magica. Magica di più per chi lavora e si impegna ed è anche aiutato da un pizzico di fortuna.

Da genovese consideravo i torinesi, forse un po’ troppo espansivi. Però resta il fatto che a Torino ho trovato alcuni tra i migliori amici della mia vita.

L’esperienza professionale è stata a dir poco esaltante. La cosa più importante che ho fatto nella mia vita è stata l’introduzione alla Stampa dei computer in redazione, un evento di portata nazionale. Esserci riuscito con la forza di persuasione (e l’aiuto di qualche buon incentivo) è una delle poche cose della mia vita di cui mi sento orgoglioso.

Un’altra cosa che avevo cominciato a studiare insieme col direttore, Giorgio Fattori, era un progetto per trasformare la Stampa, giornale torinese, in una giornale nazionale mediante una edizione curata da Roma, sul modello dell’americana Herald Tribune, proprio grazie alle prospettive offerte dalle tecnologie “a freddo” per la composizione dei giornali.

Per non farvi mancare nessun particolare comincio da quel 29 gennaio. Fino a pochi giorni prima ero stato un redattore, il terzo di tre, nell’ufficio dell’agenzia di stampa Ansa a Londra. Il 29 avrei assunto il mio nuovo lavoro di assistente di Giovanni Giovannini, consigliere delegato della Stampa nonché presidente della editoriale Fabbri e della EFI, una holding ormai in via di smantellamento per ordine di Fanfani, costituita qualche anno prima da Carlo Caracciolo insieme con il cognato Gianni Agnelli.

La mia fortuna era stata che il mio predecessore, Luca  Grassi, aveva sposato la figlia di Giovannini cosa che ne rendeva impossibile la permanenza nel ruolo.

Io avevo conosciuto Giovannini per una banale circostanza: un articolo che avevo scritto da corrispondente della Stampa da Genova nel 1972 su un incontro di Ugo La Malfa con gli imprenditori genovesi. Notoriamente la Malfa era il “padrino” del direttore della stampa dell’epoca, Alberto Ronchey. Giovannini, con quel suo fare sempre tra l’amichevole, il burbero e il polemico mi aveva telefonato da Torino un mattino per farmi alcuni commenti sul pezzo e raccomandandomi di stare attento perché la Malfa era un tema caldo per il giornale.

Colsi l’occasione di quel primo contatto per presentarmi, qualche mese dopo, da Giovannini, nel frattempo passato da vicedirettore ad amministratore delegato del giornale, per chiedergli consiglio: l’Ansa mi voleva mandare a Londra, cosa mi suggeriva?

Nel mio piccolo piccolo cervello genovese, il mio sogno era che Giovannini mi dicesse: non andare, ti assumiamo full time (ero solo corrispondente part time ex art.12), resta con noi.

Giovannini fece quello che avrei fatto io stesso più avanti negli anni, non abboccò e mi chiese: “Quanti anni hai? “Ventisette”, risposi.  E lui: “Alla tua età ci sarei andato su una gamba sola. Teniamoci in contatto, scrivimi.”

Fra il 1972 e il 1974 ci scambiamo alcune lettere. Era maggio del 1973 quando andrai a trovarlo un sabato pomeriggio di primavera avanzata. A Torino i tigli erano in fiore. Io ero andato da Genova accompagnato dall’oggi novantenne Aldo Repetto.  Guidavo una Fulvia coupe nuova di fabbrica.

Giovannini era solo nel suo grande ufficio al quinto piano del palazzo di via Marenco che ospitava nella sede dell’IFI (al settimo e ultimo piano) una fantozziana suite di Agnelli (con tanto di moquette rossa).

L’IFI è  l’Istituto finanziario industriale, al tempo la holding finanziaria del gruppo Agnelli.

Parlammo un po’ e poi fece un cenno alla prospettiva di un impiego con lui. Nel frattempo, mi commissionò uno studio sulla televisione via cavo che aveva fatto il suo esordio proprio a Londra. Scrivilo in inglese, si raccomandò.

Dopo quasi trent’anni dalla fine della guerra, il monopolio della radio e della TV di Stato stava per terminare in tutta Europa. In Italia cominciò Telebiella. Il genio di Berlusconi colse l’occasione.

Erano tempi di grandi fermenti: “Radio libere”, “TV libere”, “Fine del monopolio di Stato”, “Abbasso la Rai”. Da una nave ormeggiata al largo nella Manica, Radio Luxembourg mandava in onda canzoni senza censure.

Anche Giovannini e quelli dell’IFI coccolavano l’idea di un ingresso nella TV. Per mesi ci saremmo consumati in inutili conti: in un periodo in cui il denaro costava fino al 25%, qualsiasi investimento non avrebbe portato da nessuna parte. Ma questo era di là da venire.

In quell’estate del 1973, mi trascinai fino a Greenwich, dove erano stati fatti i primi esperimenti di televisione via cavo, solo per scoprire che chi aveva avviato l’iniziativa non l’aveva fatto in nome della libertà di espressione ma semplicemente per vendere più apparecchi TV. A Greenwich il segnale della BBC si prendeva male e due venditori della zona avevano pensato di ovviare in quel modo.

Il mio rapporto passa l’esame di Giovannini e anche quello di Alberto Vitale, all’epoca direttore delle partecipazioni dell’IFI e quindi il suo diretto superiore. Negli anni seguenti, Vitale si sarebbe poi trasferito a New York, dove avrebbe iniziato una favolosa carriera, passando da direttore amministrativo della Bantam Books a presidente e amministratore delegato di Random House, il più grande editore di libri del mondo. Aveva un tavolo fisso in uno dei più bei ristoranti del mondo, il Four Seasons, al pianterreno del grattacielo Seagram, quello disegnato da Ludwig Mies van der Rohe. Una volta che eravamo a New York, anche Caracciolo e il sottoscritto furono invitati per il lunch.

Sarebbe diventato mio amico negli anni successivi, mi onora il fatto che ancora oggi segue le mie notizie e il bollettino di Cronaca Oggi.

Fu così che fui giudicato idoneo al ruolo di assistente di Giovannini, fu decisa l’assunzione, fissato lo stipendio, concordata la data, appunto fine gennaio del 1974.

Nell’attesa mi concessi una crociera nel Mediterraneo sulla Raffaello. Ricordo l’arrivo a Istanbul navigando nel Bosforo. I minareti emergevano poco poco dalla nebbia del mattino: fu un’esperienza molto emozionante. Facemmo tappa anche a Beirut giusto pochi mesi prima che avesse inizio la guerra civile che devastò il Libano dal 1975 per 15 anni.

Viaggiare su una delle grandi navi italiane del primo dopoguerra fu qualcosa di unico e indimenticabile che i turisti delle crociere di oggi, chiusi dentro le scatole di aria condizionata e alimentati di cibi pre cotti e congelati, non possono nemmeno immaginare.

Le due navi gemelle, Michelangelo e Raffaello, erano state costruite quando ancora il trasporto aereo transatlantico non aveva lo sviluppo che assunse poi. In sei giorni di navigazione si andava da Genova a New York. C’erano tre classi, la terza inzuppata di emigranti che tornavano a casa o tornavano in America dopo una vacanza al paese.

Anche l’equipaggio era diviso in classi: genovesi con qualche triestino gli ufficiali, genovesi o liguri i camerieri di prima classe, napoletani di Torre del Greco gli addetti ai servizi inferiori, siciliani i marinai semplici.

In prima classe il livello di servizio era inarrivabile: cucina da grande ristorante, serata danzante tutte sei le giornate, Vita all’aperto sui ponti, tempo permettendo. Quando feci la traversata da Genova a New York a fine ottobre del 1968 il tempo non fu molto clemente.

Il comandante, uno di Camogli che ebbe le palle per mandare all’inferno anche il presidente della holding di Stato che controllava l’Italia Navigazione (e poi per questo fu licenziato) e si rivolgeva ai suoi ufficiali in genovese, dicendogli “scio”, (signore) aveva deciso di tirare dritto su New York, evitando un lungo giro che ci avrebbe allontanato dalla burrasca, per risparmiare sul carburante, anche perché sul risparmio aveva un premio.

Fu così che beccammo il maltempo: mare forza sei, la nave lunga 250 metri che andava su e giù e vedevo dal mio punto di osservazione la poppa alzarsi sopra la mia testa. Quasi tutti i passeggeri si erano richiusi in cabina.

Al bar della prima classe c’eravamo rimasti solo io e un americano di origine danese: Arnold Antonsen, importatore a New York di mobili italiani, gran lavoratore, uomo mite e generoso, mi iniziò alle delizie del Bloody Mary che ancora oggi preparo con perizia

A New York, le navi dell’Italia navigazione ormeggiavano al Pier 90, sull’Hudson. Scendo a terra e mi dicono vai tranquillo, il conducente del taxi è italiano. Comincio a parlare ma non capivo nulla di quello di quello che mi diceva il tassista. Era siciliano e parlava il suo dialetto. Così tutta la generazione dei nostri migranti avevo portato in America del Nord come del Sud il suo dialetto d’origine ma seghe penso ne rappresenta una testimonianza.

Ricordo con commozione di quei giorni a New York l’incontro con un ragazzo del mio quartiere di Genova, Castelletto. Bruno Ceccarelli era primo ufficiale di macchina sulla nave americana che faceva le crociere nei Caraibi. Ritrovarci e passeggiare per la 42ª strada: un momento emozionante.

Ma torniamo al mio primo giorno di scuola a Torino.

Il giorno prima di quel 29 gennaio sono a Genova, saluto i miei genitori e vado a cena con i miei cari amici, Andrea lizzo D’Angelo, Cesare Lanza, Andrea Poletti e Paolo Panerai con rispettive mogli.

Dopo cena, abbiamo qualche problema col vecchio ascensore di casa D’Angelo, poi tutto scorre liscio fino alla partenza.

Alla guida della mia Fulvia coupé imbocco l’autostrada per Torino, prima la Genova-Serravalle poi la Tortona-Torino. Verso Alessandria ci avvolge una terribile nebbia, come non l’ho mai vista nella mia vita in precedenza. Nemmeno in Inghilterra ero mai riuscito a imbattermi in un banco di nebbia, le politiche ambientali del governo inglese avevano debellato lo smog.

Quel primo impatto con la nebbia ebbe per me un effetto strano. Invece di sentirmi sgomento, mi trovai come a casa e pensai che era un effetto ancestrale. Mio padre era nato da quelle parti, ad Alessandria, 80 anni prima. La sua famiglia era originaria di Spinetta Marengo, credo fosse la fabbrica della nebbia.

Una nebbia simile l’avrei trovata qualche anno dopo sulla strada da Torino a Gassino, mentre andavo a casa di Gianni Gambarotta. Io guidavo, Giovannini a un certo punto fu costretto a scendere per trovare la strada nella nebbia finché a un certo punto persi anche lui.

La fatica della guida mi appesantiva però gli occhi.

Col pensiero che tornava all’ascensore di casa D’Angelo che andava su e giù senza che nessuno ne toccasse i pulsanti e al brivido di paura, ma riuscii ad arrivare fino al casello di Torino antenne. Poi dal casello residence Du Park fu facile.

Il giorno dopo primo giorno di lavoro, ero seduto la mia nuova scrivania. Nell’ufficio di Giovannini si teneva una grande riunione con una decina di dirigenti. Certo, punto la porta si spalanca e nero esce un proiettile umano coi baffi. Era Lio Rubini, un grande dell’editoria italiana del dopoguerra, un personaggio straordinario,  affascinante. Ci dividevano tante cose ma ci univa il dialetto. Rubini era furioso per le malefatte di un dirigente siciliano e mi telefonava per sfogarsi. Bastava dirgli: “cose tu voe, Lio, o l’è un gabibbo” per calmarlo. “Ti gh’e raxion, o l’è un gabibbo” e riappendeva tranquillizzato.

 

 

 

 

 

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Autore
Blitz

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