Nobel per la pace a Trump? Tra parate, riarmo e bombardamenti all’estero il tycoon ha avuto la sua svolta militarista

  • Postato il 9 luglio 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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“Il presidente Trump ha dimostrato una dedizione costante ed eccezionale nel promuovere la pace, la sicurezza e la stabilità in tutto il mondo”. Non lesina gli elogi Benjamin Netanyahu che durante la sua visita a Washington ha offerto al presidente Usa la lettera inviata al comitato norvegese del Nobel per la pace. Trump, a giudizio del primo ministro israeliano, merita il riconoscimento per il ruolo giocato nella firma degli Accordi di Abramo del 2020 che hanno stabilito legami diplomatici tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan.

Difficile che dalla Norvegia arrivino segnali positivi, almeno per il momento. Le candidature per il Nobel 2025 si sono chiuse a gennaio e a contendersi il premio sono già in 338. Trump ha comunque accolto con soddisfazione il gesto di Netanyahu. È noto che il presidente ci terrebbe molto a essere incoronato come “portatore di pace”. Lo scorso mese, in un post su Truth Social che elencava i suoi successi diplomatici, Trump ha però lamentato di non essere preso davvero in considerazione. “Qualsiasi cosa faccia, non me lo daranno mai”, ha concluso tristemente.

Netanyahu, sempre abilissimo nel lusingare l’ego di Trump, non è il primo ad aver avuto l’idea. Lo scorso 21 luglio anche il Pakistan annunciava di voler raccomandare Trump per il Nobel per la pace, in particolare per l’impegno nel risolvere il recente conflitto con l’India. Il giorno dopo, mentre gli aerei americani bombardavano i siti nucleari iraniani, a Islamabad devono aver capito di rischiare il ridicolo e hanno ritirato la candidatura. È vero che già nel passato il premio è andato a personaggi piuttosto discutibili. Il caso più clamoroso è forse quello di Henry Kissinger che ottenne il riconoscimento nel 1973, l’anno dopo aver dato il via libera alla guerra chimica contro Vietnam, Laos, Cambogia.

Quanto ad afflato militarista, anche Trump comunque non scherza. A parole, appunto, il presidente americano ha sempre rivendicato la sua buona volontà pacifista. Il 20 gennaio scorso, nel discorso dell’Inaugurazione, spiegava di voler passare alla Storia come “peacemaker”. Tutta la sua campagna elettorale era stata intessuta di rassicurazioni sulla sua volontà di far finire i conflitti in Ucraina e Gaza e sul rifiuto delle “guerre infinite” dell’America. In un town hall di Fox News del gennaio 2024, Trump aveva anche spiegato di essere stato l’unico presidente americano in oltre settant’anni a non aver mandato i soldati al fronte. Le parole sono state quindi chiare. La realtà è stata molto diversa.

Anzitutto non è vero, e per due ragioni, che Trump sia stato l’unico presidente Usa a non aver inviato i soldati all’estero. Jimmy Carter non mandò alcun soldato americano a morire in un conflitto fuori dagli Stati Uniti. E nel suo primo mandato Trump è stato tutt’altro che una “colomba”. Ci sono stati i missili da crociera in Siria, le operazioni militari in Somalia, il drone che ha ucciso il generale iraniano Qassem Soleimani. La spirale militarista si è allargata nei primi mesi del secondo mandato, in America e all’estero. I primi a finirci di mezzo sono stati i migranti senza visto regolare – talvolta anche chi invece ce l’aveva – catturati da agenti mascherati in mezzo alla strada, nelle loro case, nei ristoranti, nelle aziende agricole, nelle scuole, nelle università, fuori dagli ospedali, sbattuti a forza dentro aerei, deportati spesso senza processo. Nel frattempo, Trump ha fatto esplodere le sue bombe nello Yemen. Un’analisi condotta dal gruppo Airwars ha concluso che i raid americani sullo Yemen hanno fatto 224 morti civili tra marzo la fine di maggio. Le vittime erano state 258 tra il 2002 e il 2024. In due mesi, l’esercito che risponde al commander-in-chief Donald Trump ha quindi fatto quasi gli stessi morti dei passati 22 anni.

C’è stato poi l’invio dei soldati e delle truppe della Guardia Nazionale a Los Angeles, con l’utilizzo dell’esercito per fini di polizia sul suolo americano – cosa esplicitamente vietata dalla Costituzione, a meno che il presidente non invochi l’Insurrection Act del 1807. Mentre i soldati si disponevano in tenuta da guerra per le strade della California, Trump e il suo segretario alla difesa Pete Hegseth si dicevano anche pronti a mandare i soldati ovunque si manifestasse, anche solo pacificamente. Sabato 14 giugno, il presidente ha infine realizzato il suo grande sogno, quello di una parata militare per le strade di Washington per celebrare il 250esimo anniversario dell’esercito americano. Quel giorno Trump ha compiuto 79 anni. Il presidente attendeva la parata dal 2017, quando aveva assistito a Parigi alle celebrazioni per la presa della Bastiglia. Tornato a Washington, aveva chiesto di organizzarne una simile ma i generali gli avevano fatto capire che le parate sono cose da dittatura. Otto anni più tardi, spazzate via le fastidiose limitazioni dei militari ai quali non era simpatico, Trump è riuscito a realizzare il suo sogno. Soldati, carrarmati, persino cani robot hanno sfilato sotto il suo sguardo, in una festa che è costata 90 milioni di dollari e che non ha molti precedenti nella storia americana. L’ultima volta che i soldati avevano sfilato a Washington era il 1991, ma allora si festeggiava la fine della Guerra del Golfo.

I 125 aerei e le 75 bombe lanciate sull’Iran sono quindi l’ultimo episodio di una presidenza ancora giovane ma già molto impegnata sul fronte militare. Significativi, e secondo alcuni preoccupanti, sono anche i modi in cui l’afflato militarista si manifesta. Non soltanto Trump ha completamente disatteso il War Powers Act del 1973 che subordina i poteri di guerra del presidente al controllo del Congresso (cosa che peraltro hanno fatto tutti i presidenti del recente passato, come Barack Obama che non ha chiesto l’autorizzazione del Congresso per uccidere Osama bin Laden). Trump ha anche mancato di informare dell’attacco all’Iran la Gang of Eight, gli otto membri del Congresso – i due leader democratici e repubblicani di Camera e Senato, oltre ai membri senior delle Commissioni di intelligence del Congresso – che vengono quotidianamente aggiornati sulle principali questioni di sicurezza. È una attitudine militarista, e un’indifferenza nei confronti di regole e controlli, che non piacciono a settori della politica e della società americana, non solo democratica. Un deputato repubblicano del Kentucky, Thomas Massie, ha guidato una battaglia per far rispettare il War Powers Act e imbrigliare i poteri di Trump. Oltre che all’Iran, Trump ha dichiarato guerra anche a lui, definendolo uno “sfigato” e mettendo in piedi un’operazione politica destinata a defenestrarlo dal Congresso.

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