“Noi, obiettori israeliani, ci rifiutiamo di entrare in un esercito accusato di crimini di guerra. La comunità internazionale fermi Netanyahu”
- Postato il 12 dicembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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“Sì, dopo il 7 ottobre i giovani che obiettano come noi sono aumentati, il nostro movimento cresce, ma è troppo lento. Non si può aspettare che la società israeliana cambi per fermare il genocidio e la pulizia etnica: la comunità internazionale deve agire ora”. Hanno fatto 2.700 chilometri da Tel Aviv per diffondere questo messaggio, ne faranno altre centinaia in giro per l’Italia per essere sicuri che venga ascoltato, accompagnati in un tour da Assopace Palestina. Ido Elam e Ella Keidar Greenberg sono due giovani di 19 anni, obiettori di coscienza o refusenik, come si dice in Israele. Hanno rifiutato di prestare servizio nell’esercito quando sono stati chiamati a farlo raggiunta l’età della leva obbligatoria, come capita a tutti i ragazzi e ragazze israeliane. “Sono attivista contro l’occupazione nei Territori palestinesi da quando ho 14 anni, avendo conosciuto l’apartheid in West Bank mi è stato subito chiaro che non potevo prendere parte alla politica di pulizia etnica messa in pratica dal nostro governo a Gaza”, spiega al Fatto Ella Greenberg.
Il 19 marzo 2025, a 18 anni, mentre da quattro era già un’attivista transgender, si è presentata al centro di reclutamento di Tel Hashomer con in mano la lettera di chiamata, e ha dichiarato il suo rifiuto di partecipare al genocidio a Gaza, l’opposizione all’occupazione e alla guerra in generale. La mossa le è costata un mese di carcere, da cui è uscita l’11 aprile scorso. Aleggia la minaccia di ulteriori misure penali, ma in realtà per Ella, come gli altri refusenik, il trattamento è stato piuttosto lieve, se paragonato a quello riservato ai cittadini e non di origine palestinese incarcerati nel Paese (quasi la metà in detenzione amministrativa senza accuse formulate, secondo le ong dei diritti umani di Israele). “Ora siamo persone libere”, continua Greenberg, “le punizioni per gli obiettori sono piuttosto lievi perché le autorità ci tengono a evitare di farci diventare dei martiri agli occhi degli altri israeliani”. Lei e Ido Elam sono i volti più vista dell’associazione Mesarvot, ossia “noi rifiutiamo” in ebraico, rete che si concentra sull’opposizione al servizio militare obbligatorio e all’occupazione dei territori palestinesi.
Piuttosto, come capita a molti attivisti radicali israeliani che definiscono fuori dai denti le politiche del governo di Gerusalemme come apartheid e pulizia etnica, gli obiettori sono tacciati di essere dei traditori, in un Paese in cui l’esercito è un pilastro portante (e visibile) della società, e il servizio militare associato a un dovere morale. Venerdì i due attivisti di Mesarvot saranno al circolo Arci Angelo Mai per un’ultima conferenza, accompagnata dalla proiezione del film Innocence di Guy Davidi (regista noto per il documentario Five broken cameras): “Non lo abbiamo visto neanche noi, ne parleremo”, spiega Ido, intervistato a margine di un incontro al Senato della Repubblica a Roma, ospitato da Alleanza verdi sinistra con, tra gli altri, Nicola Fratoianni e Luisa Morgantini.
Il film Innocence è stato lanciato alla Mostra di Venezia nel 2022, ma in Israele praticamente non è stato distribuito. È una critica frontale della militarizzazione della società israeliana, e solleva il tema dei suicidi tra i soldati e degli effetti devastanti del disturbo post traumatico da stress, una sorta di tabù per la politica israeliana, soprattutto per la maggioranza che sostiene Benjamin Netanyahu. In un contesto in cui il racconto pubblico di sh’khol (il lutto per i figli caduti) nel dibattito pubblico prende esclusivamente le forme della commemorazione patriottica dell’eroismo dei caduti.
Davanti al pubblico internazionale, Ella e Ido non vogliono portare soltanto la loro testimonianza. Cercano piuttosto di suscitare un ribaltamento di prospettiva: non limitarsi ad ascoltare quella fetta minoritaria di israeliani critici con le politiche più violente portate avanti contro i palestinesi, non aspettare che Mesarvot diventi un’organizzazione di massa prima di agire, ma piuttosto prendersela con i leader, pretendere la massima pressione sul governo Netanyahu da parte della comunità internazionale, per il rispetto del diritto internazionale. “Quello che facciamo non sarà mai sufficiente”, confessa Ella. “Non illudiamoci che le politiche del governo israeliano cambieranno per via di un cambio di mentalità degli israeliani. Se tante persone oggi giustificano il genocidio è perché queste politiche sono reali, se la comunità internazionale si adoperasse per fermarle, per renderle illegali e impossibili, allora vedrete che anche la maggioranza silenziosa cambierà idea”.
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