Non chiamateli accessori: viaggio nel glamour della Belle Epoque narrata da Boldini e i suoi coevi

  • Postato il 10 dicembre 2025
  • Di Panorama
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Non chiamateli accessori: viaggio nel glamour della Belle Epoque narrata da Boldini e i suoi coevi
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Le nuove mostre invernali celebrano la vanità e la seduzione femminile in un’epoca non così lontana dall’ammiccante esibizionismo degli influencer e delle pop star di TikTok puntando i riflettori sugli stili delle icone più glamour della belle époque e dell’art nouveau immortalate dai grandi artisti italiani e stranieri della fine dell’Ottocento. Fu una vera e propria stagione d’oro fra le più innovative, compresa fra l’impressionismo e l’apogeo del liberty, ossia l’epoca in cui per la prima volta a Parigi nasce la haute couture nella sua accezione moderna. Sotto la lente d’ingrandimento delle ultime art exhibition in corso fra la Svizzera e il bel paese spicca, dunque, il rapporto moda-arte che, alle soglie del primo conflitto mondiale, mostra nuove, intriganti implicazioni attraverso codici ancora oggi attualissimi. Un apparente dualismo, quello fra la semiologia della moda e i linguaggi dell’arte, che si rivela poi una ibridazione in piena regola nell’ottica di un dialogo serrato fra gli abiti, gli accessori e la loro illuminante iconografica pittorica, raccontata mirabilmente da una esposizione che si focalizza proprio sugli accessori moda a cavallo fra due secoli, nel momento d’oro per l’ascesa della borghesia in Europa.

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La mostra Accessori di classe aperta fino a febbraio 2026 nelle sale della Pinacoteca cantonale Giovanni Züst di Mendrisio, documenta in modo meticoloso l’evoluzione di complementi di stile come borse, scarpe, ventagli, guanti, gioielli, cappelli, ombrelli e bastoni da passeggio in un arco temporale compreso fra il 1830, coincidente con l’exploit del romanticismo e il 1930, quindi l’apoteosi dell’art déco. Curata da Elisabetta Chiodini e Mariangela Agliati Ruggia questa esposizione esprime tutta la pregnanza semantica degli accessori come talismani di seduzione e manifestazioni di identità sociale prima ancora che del gusto legato agli ambienti più altolocati fra il diciannovesimo secolo e il Novecento. Nati per armonizzarsi con le toilette e i look maschili e femminili più in voga lungo le varie decadi dell’Ottocento, in realtà alcuni di questi petits rien, come i cappelli, spesso ideati per valorizzare elaborate acconciature o tagli più sbarazzini, diventano, nell’iter espositivo, indici eloquenti di un cambiamento epocale nella percezione dell’abito e dei suoi significati. Del resto, non è un caso che, proprio realizzando cappelli con notevole abilità manuale, acquistasse notorietà nella prima decade del XIX secolo Gabrielle Chanel, amica e protettrice di un folto stuolo di artisti come Dalì, Diaghilev, Berard e Cocteau nella Parigi assurta a fucina di avanguardie. In particolare, nella ville lumière vissero e operarono a cavallo fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo scorso alcuni artisti italiani che, in concomitanza con la nascita e l’affermazione della haute couture grazie a Charles Worth e Paul Poiret, antesignani degli stilisti moderni, costruirono con le loro opere una narrazione saldamente intrecciata con la moda, la vita quotidiana e la mondanità del loro tempo. I loro dipinti appaiono ancora oggi delle eloquenti tranches de vie in cui l’osservazione della vita urbana propugnata da Charles Baudelaire, padre dei flaneur di oggi, diventa il fertile humus di un nuovo storytelling ancora di grande attualità. Avidi di realtà e paladini di un fervido naturalismo, Giovanni Boldini, Giuseppe De Nittis e Federico Zandomeneghi dialogarono con il pittoricismo e le pennellate corpose di Mariano Fortuny y Marsal infondendogli nuova linfa. Il maestro spagnolo scomparso prematuramente nel 1874, era anche il padre di quel Mariano Fortuny più celebre fra i modaioli che, grazie ai suoi Delphos e ai preziosi velluti operati, non a caso divenne lo scenografo e il sarto di fiducia di Eleonora Duse, protagonista del teatro del periodo liberty. Tutto questo e molto altro ancora si può scoprire nella nuova mostra Belle Epoque, pittori italiani a Parigi nell’età dell’Impressionismo aperta fino al 7 aprile al Palazzo Blu di Pisa. Curata dalla storica dell’arte Francesca Dini, questa exhibition che ha richiesto un impegno ciclopico solo per assemblare la selezione finale, riunisce per la prima volta un centinaio di opere spesso rare o mai esposte prima, dislocate in ben nove sezioni tematiche. Il risultato è sorprendente: tutt’altro che passivi nel recepire la pluralità di stimoli provenienti dalla pulsante e dinamica realtà parigina, i tre artisti provenienti dal milieu dei macchiaioli seppero cogliere quella incontenibile vitalità combinandola con una memoria culturale squisitamente italiana, costruita tra Firenze, Napoli e Venezia. Un background d’eccezione che rende la loro produzione profondamente originale per distinguerla da quella dei colleghi francesi. Il merito di questa vivida rassegna va soprattutto a Francesca Dini, eminente studiosa dell’Ottocento italiano che su questa exhibition ha investito due anni di intenso lavoro. Per citare la curatrice stessa “questa mostra rappresenta un viaggio nella storia culturale europea, attraverso artisti italiani, che hanno trasformato la la loro pittura in linguaggio internazionale, senza mai dimenticare le loro radici. Non si tratta solo di una raccolta di capolavori belli da vedere, ma del tentativo di dare voce e contesto a un periodo, restituendo profondità a un momento spesso banalizzato dalla sua stessa seduzione estetica.” Nel dettaglio, la figura di Boldini, definito da Cecil Beaton colui che sapeva riprodurre la sensazione folgorante che le donne sentivano di suscitare quand’erano viste nei loro momenti migliori, assume nella mostra stessa un risalto decisivo per il suo ruolo di vate della belle époque e pittore della società aristocratica. Fra edonismo e ambigua decadenza i ritratti di personaggi come la Marchesa Casati, Réjane, Cléo de Mérode, Sarah Bernardt e Franca Florio, immortalati dalle vaporose pennellate dell’artista ferrarese, rappresentano più che mai non solo la vibrante ‘fotografia estetica’ di un periodo particolarmente cruciale per la storia europea, ma anche una chiave di lettura potente del suo zeitgeist e, forse, anche del nostro. Non a caso nel 1931 in occasione della prima retrospettiva a lui consacrata Vogue lo ribattezzò pittore dell’eleganza. Nel prisma del sofisticato e pirotecnico immaginario di questo trendsetter ante litteram che descrisse minuziosamente l’alternarsi delle tendenze sartoriali il binomio ottocentesco corpetto-crinolina tende a dissolversi per lasciare posto a linee più sinuose e levigate come quelle della princesse e della silhouette a S, ispirata per certi versi alle flessuosità dell’Art Nouveau e alle icone muliebri di Alphonse Mucha, pittore e illustratore decorativo oggi protagonista di una ricca esposizione di 150 fra le sue opere più rappresentative realizzata da Arthemisia e aperta a Roma fino a marzo nella sfarzosa cornice di Palazzo Bonaparte. Curiosità: nel percorso di questa suggestiva mostra capitolina, oltre ad arredi stile liberty compaiono anche varie opere di Boldini. Coniata verso il 1873 dal grande Worth la voluttuosa forma a S che dopo le astrazioni delle decadi precedenti trasfigurava il corpo in oggetto del desiderio, così in voga nel guardaroba delle femmes fatale fin de siècle dipinte da Boldini, fu per merito di Redfern e Doucet l’anticamera dell’affrancamento definitivo delle fogge dalle odiose coercizioni della moda ottocentesca. Un processo estetico che, nell’arco del Novecento, ha affascinato vari couturiers come Elsa Schiaparelli, rapita negli anni’50 dalle languide grazie delle muse di Giovanni Boldini, Oscar Wilde e Marcel Proust. Circa trent’anni dopo Emanuel Ungaro, Valentino Garavani, Karl Lagerfeld per Chanel, Pino Lancetti, Renato Balestra, Givenchy, Yves Saint Laurent e, poi, verso la fine degli anni Novanta, anche Gianfranco Ferrè da Dior, Christian Lacroix, Alexander Mc Queen e John Galliano hanno attinto a piene mani all’iconografia boldiniana e ai languori del boudoir di Mata Hari, la Belle Otero e Odette de Crécy in una profusione di sellini, vertiginose spirali di creste plissettate, ventagli di seta convertiti in corpetti, bustier scultorei, panneggi vari e doviziosi falpalà di tulle e pizzo. Una lunga odissea di glamour e charme che arriva fino alle passerelle del 2025 dove il corsetto torna alla ribalta: forse proprio in omaggio alle conturbanti sirene di Boldini Ermanno Scervino lo propone in tutto il suo sulfureo splendore assortito a una slanciata gonna a tubo di pizzo avorio e a lunghi guanti da diva. Da Dior è sdrammatizzato sotto camicie immacolate come un cropped top solcato da cerniere. Stregato da Boldini e dalle sue maliarde ci sembra anche Giuseppe di Morabito, che sotto i corsetti drappeggia e taglia i centimetri delle gonne laddove sulla pedana parigina di Louis Vuitton qualche settimana fa hanno sfilato reincarnazioni di Réjane e Cléo de Mérode intente a ricevere in casa. La maison Vivienne Westwood ha abbinato la guepière di fine Ottocento, una delle sue magnifiche ossessioni, al body più ginnico e sgambato per regalare verve a certi look di scena della popstar Elodie.

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Autore
Panorama

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