Non chiamateli scultori. Il dialogo impossibile

  • Postato il 4 ottobre 2025
  • Di Il Foglio
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Non chiamateli scultori. Il dialogo impossibile

A Parigi, rue de l’Université è lunga quasi tre chilometri. Chi vi abita o sceglie di aprirvi il proprio ufficio, appartiene allo stesso gruppo socio-culturale che vive lungo un’altra arteria lunghissima, Dorsoduro a Venezia, specialmente nella sua parte a nord-est, le Zattere. Professionisti, artisti di successo, scrittori, cantanti. Rue de l’Univerité parte nel VII arrondissement, agli Invalides, e scende fino al V, l’area che un tempo si definiva boho-chic, adesso chissà, sebbene i residenti non siano cambiati affatto.

Diego Della Valle, abitante del quartiere, ha scelto il numero 98 di questa strada per un investimento immobiliare e di immagine che premia il grandissimo lavoro svolto in questi anni attorno a Roger Vivier, gioiello calzaturiero del gruppo Tod’s prodotto presso alcuni dei più importanti calzaturifici marchigiani, nel centro-Italia da dove proviene anche il suo direttore creativo, Gherardo Felloni, quarantacinque anni, aretino, figlio e nipote d’arte nonostante per un certo periodo avesse studiato canto lirico, un po’ come il fondatore che, a poche centinaia di metri da dove, adesso, si apriranno i nuovi uffici, l’atelier e un grande archivio che parla di cinema almeno quanto di moda, aveva studiato per diventare scultore. Accanto a quello che da oggi in poi si chiamerà Hotel Vivier, costruito dall’architetto reale Jacques Gilet de la Fontaine attorno al 1729 e quindi passato attraverso varie proprietà fino al 1934, quando vi si installò la Ligue Féminine d’Action Catholique Française, a metà dell’Ottocento viveva Alphonse de Lamartine, poeta di quel Romanticismo malinconico che non si legge più a meno di esservi costretti, ma soprattutto ministro degli esteri oltre che diplomatico a lungo di stanza in Italia, per la precisione a Firenze e per essere ancora più precisi residente in via dei Serragli 136, la via dove, al 144 di villa Torrigiani, Giovan Battista Giorgini tenne la storica sfilata di moda italiana del 1951 che le aprì le porte alla riconoscibilità internazionale. Roger Vivier è, con Schiaparelli e Moncler, uno dei pochi marchi francesi di proprietà italiana.

Questa lunga premessa per spiegare l’importanza del genius loci e anche introdurre l’iniziativa spericolata che ci siamo prefissi sfogliando negli ultimi mesi l’archivio ricchissimo della maison e ascoltando le pur rarissime interviste video del suo fondatore, che era nato nel 1907, aveva inaugurato la sua attività di creatore nel 1937 ma era emigrato negli Stati Uniti per sfuggire all’occupazione nazista e all’obbligo della leva. Rientrato in Francia, a Mougins aveva fatto conoscenza di Christian Dior, che aveva già ottenuto un grande successo con la sua moda femminilissima e l’infinito, sontuoso metraggio dei suoi abiti. Roger Vivier sarebbe diventato il creatore delle calzature di Dior, primo spin off della maison a cui ne sarebbero seguiti molti altri. Nel mondo, però, lo si conosce per la lunga serie di tacchi di alta ingegneria inventati fra i Cinquanta e i Sessanta, dalla “virgola” allo “choc” alla “spina di rosa”, allo stiletto, oltre al celebre modello di décollété “Pélerine” indossato da Catherine Deneuve in “Belle de jour”, correva il 1967, e da allora costantemente rivisitato come “Belle Vivier”, lungo una serie di invenzioni che mettono il creatore, scomparso nel 1998, al pari solo di Salvatore Ferragamo e, per certi versi, di Maud Frizon. Osservando i disegni, ascoltando le sue parole nelle rarissime interviste concesse a Tf1, leggendo i suoi appunti, abbiamo tentato l’impresa di mettere a confronto le sue parole con quelle di Felloni, autore di collezioni contemporanee sugli elementi-chiave dell’eredità di Vivier, a partire dalla fibbia che è diventata l’elemento centrale anche di una collezione di borse da sera in pezzi unici. Questo dialogo impossibile si svolge su temi fondamentali, ma anche inediti, per questo mestiere: la couture, la sensualità, il cammino delle donne, metaforico o meno.

Scultura, couture, pret-à-porter

R.V. Da scultore che volevo essere, sono sempre stato affascinato dalla tridimensionalità funzionale della calzatura. Io non creo oggetti ornamentali, ma strumenti di libertà e di espressione: ogni curva, ogni drappeggio, ogni tacco nasce dall’incontro tra la silhouette femminile e l’eleganza del gesto. Mi sento onorato quando mi definiscono “le couturier de la chaussure”: vi ho introdotto elementi nuovi, come il tulle, i drappeggi, come fossero vestiti, al punto che le donne hanno iniziato a scegliere i vestiti in relazione alle scarpe che avevano acquistato, non viceversa.

GF. Couture, nel senso più autentico, non è decorazione o virtuosismo artigianale: è una filosofia del fare che plasma forma, funzione e immaginazione. Couture significa ascoltare il piede, il corpo, la postura, e tradurre in materiali preziosi e tecniche complesse ciò che non si vede ma si percepisce, quel senso di armonia che trasforma una scarpa in esperienza. un atto di intimità tra la creatività e la materia. Roger Vivier sapeva creare contrasti delicati: cristalli, materiali pregiati, linee pure. La modernità non è negazione della ricchezza decorativa, ma reinvenzione dell’ornamento in chiave contemporanea.

La società in cammino (soprattutto quella femminile)

RF. Il momento nel quale intuii che la calzatura doveva seguire l’evoluzione e le richieste della società, e non solo il mio slancio estetico, fu l’incontro con Christian Dior, nel 1953. Eravamo vicini di casa a Mougins, sulle alture di Cannes. Sapeva che avevo creato le calzature per l’incoronazione della Regina Elisabetta, volle vedere i miei disegni. Per anni, ho disegnato calzature per Dior, il primo che ebbe l’intuizione di proporre al mercato calzature di stile couture ma già pronte, pret-à-porter. Ho disegnato per la vita che si muoveva dentro la scarpa, che da elemento passivo, ornamentale, diventava agente silenzioso di libertà.

GF. La scarpa è un segno dell’epoca nella quale si vive. Gli anni Sessanta non sono solo un decennio di forme audaci, ma di trasformazione sociale: le donne camminano di più, vivono la città, guidano, viaggiano. La forma segue la funzione, e insieme raccontano un tempo. Il tacco Choc, per esempio, sfidava la consuetudine visiva, ma era anche una soluzione di proporzione, equilibrio e dinamica del corpo.

Il corpo calzato

RV. Una donna porta un vestito, le scarpe portano le donne: la differenza è, innanzitutto, in questo, nell’asse posturale, nell’equilibrio, nel peso del corpo che poggia sul tacco, che dà tono alla silhouette, ne enfatizza il carattere.

GF. Le scarpe sono un’estensione del corpo, ma anche dell’anima. Quando penso ad una nuova collezione, non posso fare a meno di immaginare la donna che le indosserà.

Elisabetta II, Catherine Deneuve e le altre

RV. Nella mia storia di creatore, ho avuto come clienti alcune fra le donne più conosciute del mondo, da Elizabeth Taylor ad Ava Gardner, che avevo calzato, sembra una contraddizione, nella “Contessa scalza”, oltre a Brigitte Bardot con un paio di cuissard, Jeanne Moreau, e spesso Catherine Deneuve. Ho disegnato anche per alcuni grandi artisti uomini, ma principalmente per le donne; purtroppo non è ancora arrivato il momento perché un maschio possa indossare scarpe di tulle (ride) e a me piace inventare. Ho spesso inserito sostegni nelle mie scarpe, anche quando si trattava di modelli storici, per la comodità delle attrici che vestivo e per slanciarle, penso a Jeanne Moreau nella “Grande Catherine”.

GF. Creare per il cinema significa fare entrare il gesto nel mito. Quando Catherine Deneuve camminava in “Belle de jour”, la scarpa non era un accessorio, ma l’elemento centrale di un carattere, un’invenzione drammaturgica che definiva il passo, la postura, la psicologia della donna. Con la serie "Vivier Express", cerco di continuare questa tradizione.

Gli eredi

RV. Sono tanti i nomi a cui penso. Mi piacerebbe aprire il mio atelier a Parigi, per trasmettere ai giovani quanto ho appreso nella mia carriera

GF. Il nuovo atelier viene aperto oggi.

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Autore
Il Foglio

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