Non ti riconosco più

  • Postato il 30 aprile 2025
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  • Di Il Vostro Giornale
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pensiero altro 30 aprile 2025

“Uno degli scherzi dell’antropocentrismo: descrivere la fine della specie come implicante la morte della natura vegetale e animale, la fine stessa della Terra. La caduta dei cieli. Non esiste escatologia che non consideri la permanenza dell’uomo come essenziale alla permanenza delle cose. Si ammette che le cose possano cominciare prima, ma non che possano finire dopo di noi” scrive il geniale e incompreso Guido Morselli, protagonista di uno dei “casi letterari” più tristi della nostra cultura, rifiutato da ogni editore in vita, celebrato dopo la tragica dipartita. Dopo questo dovuto e solidale ricordo, mi limito a utilizzarne le poche righe d’apertura per affrontare una questione che è implicitamente sottesa nel pensiero citato: il “permanere delle cose” è garantito dal “permanere dell’uomo”. Il tema dell’escatologia, appena accennato da Morselli, è intimamente connesso alla medesima prospettiva che si fonda sull’urgenza della ragione umana di finalizzare l’universo e individuarne l’ordine. La questione diviene: esiste un fine e un ordine o tutto questo è solo espressione del nostro bisogno? Della nostra convinzione che i nostri “strumenti gnoseoligici” siano coincidenti con la natura stessa del tutto? In onore della volontà di queste righe di affrontare temi anche complessi secondo un’ottica pop filosofica e utilizzando un linguaggio non specialistico posso riproporre questi interrogativi in una formula più quotidiana: noi conosciamo e comprendiamo la realtà attraverso i nostri sensi e la ragione, ma siamo certi che questi siano garanzia di coincidenza con la natura più vera della realtà stessa? Il nostro bisogno di ordine ha generato in principio la fede nell’esistenza di un creatore razionale che deve aver prodotto un universo altrettanto razionale e ordinato, nel tempo, tale fede è stata affiancata a quella nella scienza che, addirittura, a volte ne ha preso il posto, ma sempre fondandosi sui medesimi principi: ordine razionale, pervasività e permanenza dello stesso.

A questo punto proviamo a condurre la nostra riflessione dalle altezze metafisiche, dove viene affrontata dalla filosofia istituzionale, a quel “tuttigiorni” nel quale, spesso inconsapevolmente, un tale atteggiamento è alla base del nostro quotidiano agire, in particolare mi riferisco alle relazioni interpersonali. È proprio in quell’ambito che tendiamo a imprigionare il perenne cambiamento di ogni cosa e ogni persona in una “permanenza” che ha come unità di misura il nostro pensiero. Facciamo un esempio che, credo, sia esperienza di tutti: vi è mai capitato di sentirvi riprendere con l’espressione “non ti riconosco più”, oppure di essere stati voi stessi a utilizzarla nei confronti di qualcuno? Domanda retorica, certo, parafrasando Morselli potremmo affermare che uno degli scherzi dell’egocentrismo sia descrivere la fine dell’altro, inteso come nostra conoscenza, come esistenza affermata dalla nostra esperienza, come implicante la morte dello stesso e che non esiste relazione interpersonale che non consideri la “permanenza del giudizio” sull’altro come essenziale alla “sua” coerenza esistenziale. Si ammette che chiunque possa esistere indipendentemente da chi lo osserva, ma non che possa non rispettare l’idea che abbiamo di lui. Con l’espressione egocentrismo non intendo esprimere un giudizio negativo, ma solo puntualizzare che è tendenza comune considerare la propria esperienza come asse cartesiano della realtà oggettiva. Paradosso logico: l’esperienza è necessariamente soggettiva, per divenire oggettiva è necessario presumere che le “coordinate etiche” del protagonista dell’atto gnoseologico abbiano un valore assoluto, oppure reputarle così universalmente condivisibili da assurgere a paradigma omogeneo all’umanità nel tempo e nello spazio.

Quanto sarebbe facile e proficuo concedersi a una divertente e destabilizzante transvalutazione di ogni valore, come direbbe il buon Nietzsche, facciamo una prova? Bene, avete mai provato a tornare in un luogo, a vedere un film già visto o a leggere di nuovo un certo libro? Credo sia occorso a chiunque, ebbene, sono certo che sempre sia arrivata a ognuno la precisa consapevolezza che la medesima realtà era divenuta del tutto o in gran parte diversa. Credo sia pleonastico precisare che, inevitabilmente, a cambiare doveva essere necessariamente il soggetto che stava reinventando la realtà sulla scorta dei suoi nuovi paradigmi. Questo significa che, quando si parla di realtà, necessariamente ci si riferisce all’esperienza della stessa che stiamo compiendo in quel momento. Insomma, il “non ti riconosco più” sarebbe più corretto divenisse un “non mi riconosco più”. Il fatto è che, vivendoci quotidianamente, non avvertiamo il nostro perenne divenire e, nel momento in cui incontriamo il cambiamento attraverso l’incontro con l’altro da noi, tendiamo a riconoscerlo nell’oggetto più che nel soggetto. Va precisato che le persone non sono né film né libri? In un rapporto interpersonale non è possibile pensare che l’altro sia qualcosa di immutabile, così come non è concepibile reputare noi stessi come enti immobili nell’eterno scorrere della vita. Forse le parole del Mahatma Gandhi si riferivano proprio alla meravigliosa realtà del perenne divenire quando esortava “Sii il cambiamento che desideri vedere nel mondo”, anche se questo ci porta a dare per compreso il nostro mutare e addirittura a sostenere la possibilità di gestire consapevolmente la trasformazione indirizzandola poiché, per dirlo con le parole di Winston Churchill, “Non sempre cambiare equivale a migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare”.

Una volta condivise le premesse logiche sopra accennate diviene lecito affermare che per cambiare la realtà intorno a noi sia necessario cambiare noi stessi? Antica questione relativa al ruolo del pensiero che, oltre a comprendere, può determinare trasformazioni, va deciso se sia più onesto, coraggioso e utile intervenire sul soggetto o su quanto si definisce realtà. Resta il fatto che il cambiamento è sempre una scommessa, che molto spesso è più rassicurante aggrapparci a sclerotiche e rassicuranti certezze anche se falsificanti, ma se, a distanza di anni, potessimo rassicurarci, magari celebrando un’ipotetica coerenza, riconoscendoci una granitica immutabilità, non correremmo il ben più grave pericolo di dover ammettere di non aver vissuto davvero? Già, perché vivere è anche, e forse soprattutto, trasformarci avendo introiettato amori, sogni, sconfitte, incontri, se siamo rimasti impermeabili agli eventi non possiamo affermare di aver davvero vissuto, in caso contrario ci riconosceremo nelle cicatrici che disegnano memoria sulla nostra pelle e nei sorrisi che abbiamo regalato e condiviso. Tornando alle parole di Dio nel corso del Giudizio universale, come si legge nell’Apocalisse di Giovanni, potremmo scegliere di non essere né caldi né freddi ma tiepidi, saremmo così vomitati dalla sua bocca e non sarebbe certo un bel vedere né, tanto meno, un piacevole sapersi. In fondo Dio stesso trovò mortalmente noioso il perenne permanere dell’Essere e creò il divenire, certo, nascondendo i “dadi coi quali giocava”, creando non pochi grattacapi all’umanità intera, ma omaggiandoci del libero arbitrio, perché allora non goderne scegliendo il nostro cambiamento? Sposiamo, infine, la meravigliosa e terribile esortazione nietzscheana a “divenire noi stessi”, senza però dimenticare che una tale formidabile impresa non deve essere confusa con l’imitazione di un modello fuori di noi che, altrimenti, non staremmo divenendo noi stessi ma gli imitatori di altro da noi. Il cambiamento è un viaggio verso l’incontro di chi stiamo edificando, un procedere verso una scoperta che è contemporaneamente consapevole determinazione di noi stessi, un percorso all’interno che si riflette all’esterno e non il contrario che, invece, è il più infido degli autoinganni.

Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì. Perchè non provare a consentirsi un “altro” punto di vista? Senza nessuna pretesa di sistematicità, ma con la massima onestà intellettuale, il curatore, che da sempre ricerca la libertà di pensiero, ogni settimana propone al lettore, partendo da frasi di autori e filosofi, “tracce per itinerari alternativi”. Per quanto sia possibile a chiunque, in quanto figlio del proprio pensiero. Clicca qui per leggere tutti gli articoli.

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Il Vostro Giornale

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