Opa di MPS su Mediobanca, sarà un nuovo 8 settembre, adesioni al 45,8%, la lunga marcia e il riscatto di Siena

  • Postato il 7 settembre 2025
  • Economia
  • Di Blitz
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L’adesione alla Opa di MPS su Mediobanca è salita al 45%, dopo l’adesione dei Doris, come annuncia il Corriere della Sera. I giornali ormai si interrogano sul futuro dell’amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel e dei suoi dipendenti una volta che MPS padrona del campo.

In questa fase invece merita forse per un occhiata indietro e ripercorrere il cammino di Mediobanca e di MPS negli ultimi cinque anni.

Dalla polvere all’altare, la sua rinascita di Siena scritta con i profitti, scriveva un anno fa il Sole 24 Ore. Nel 2020, ricordava Carlo Marroni, Mediobanca era advisor finanziario del Monte per analizzare le possibili opzioni strategiche di rilancio La storia. La banca toscana salvata dallo Stato è stata risanata dalla cura del ceo Lovagli. Carlo Marroni parte dall’estate 2020 quando la Banca Monte Paschi non è più sull’orlo del burrone, ma le cose non marciano per niente. Deve essere venduta secondo le intese con la Ue, ma non si sa a chi. In realtà nessuno la vuole.

Forse per dare un generico segnale la dirigenza di allora affida a Mediobanca il ruolo di advisor finanziario «al fine di analizzare le possibili scelte strategiche dell’istituto».

I rapporti storici fra Mediobanca e MPA

Opa di MPS su Mediobanca, sarà un nuovo 8 settembre, adesioni al 45,8%, la lunga marcia e il riscatto di Siena, nella foto Francesco Gaetano Caltagirone
Opa di MPS su Mediobanca, sarà un nuovo 8 settembre, adesioni al 45,8%, la lunga marcia e il riscatto di Siena – Blitzquotidiano.it (Francesco Gaetano Caltagirone nella foto Ansa)

Mediobanca conosce il Monte da molti anni, l’ha assistito in molte fasi, comprese le due acquisizioni passate alla cronaca come azzardate o peggio: nel 2000 la Banca del Salento, poi Banca ili, costata 2.500 miliardi di lire – ma il conto sale in tutto oltre 5mila tra risanamento e il resto – e nel 2007-8 con l’Antonveneta, anche se a proporre a Siena di incollarsi la banca padovana fu la Rothschild. Costo (vero): 17 miliardi.

II Monte va in crisi nera nel 2011 quando scoppiano i problemi causati dall’acquisto di Antonveneta: si parla di finanziamenti massicci delle altre grandi banche per tamponare il crack, i bancomat della rete vengono svuotati per comprare Btp (al 7%), tanto che nel portafoglio risulterà ad un certo punto una massa di 26 miliardi di titoli di Stato.

Ma le grane iniziano subito, bisogna sostenere gli aumenti di capitale, la fondazione controllata dal Comune e dalla Provincia deve mantenere il controllo, servono soldi: si procede a vendite di asset ricchi prima di tutto, ma non basta. La storia delle ricapitalizzazioni e degli interventi dello Stato è un elenco davvero lungo, che può essere riassunto così: sette aumenti di capitale in 14 anni. Tutto compreso, ma davvero tutto, il valore degli interventi supera i 30 miliardi. Ma va subito chiarito un passaggio: non si tratta solo di soldi dello Stato, le perdite sono anche molto dei privati, grandi e piccoli azionisti.

Il vero intervento è del 2017 quando Mps viene nazionalizzato con un aumento “precauzionale” di 5,4 miliardi, è quello forse il momento più nero con perdite annuali attorno ai 4 miliardi.

Non l’hanno visto arrivare

Ma l’aria con l’arrivo alla guida di Luigi Lovaglio sta cambiando, e si conferma con l’aumento di 2,5 miliardi del 2022, che allo Stato costa per la propria quota, quindi 1,6 miliardi. La banca torna a guadagnare, e la prospettiva di una vendita torna in auge. Ci prova il governo Draghi, Daniele Franco al Mef, con Unicredit, ma il ceo Andrea Orcel dice no anche se arrivava addirittura una dote pubblica per il rischio di risarcimento per le cause.

Certo, la cura dimagrante è massiccia, i dipendenti scendono da 30 mila a 18mila, le filiali si assottigliano, i clienti anche – ora 3,5 milioni, rispetto a 5 di qualche anno prima – ma parte anche una completa riorganizzazione che rilancia la gestione. E tutto queste serve, e di vendita non si parla più apertamente.

La privatizzazione attuata dal ministro Giorgetti (che ha prodotto lo scorso anno incassi per 2 miliardi) deve ancora partire, la politica – non più di sinistra, ora il colore è diverso – riguarda a Siena con un vivo interesse. Ma resta l’incertezza sul suo destino, che a questo punto è nazionale, visto che lo storico azionista Axa nel 2023 ha venduto il suo 8%.

Ora irrompe la “carta Mediobanca”, a cui a parte Lovaglio nessuno aveva mai pensato,

Dice sorridendo un esponente interno al sistema Siena-Mps, a proposito dell’ad: «Non lo hanno visto arrivare».

Un giudizio positivo sulla Opa di MPS su Mediobanca è espresso con chiarezza e anche speranza da Mauro Ronco del Centro Studi Livatino:

“Il cedimento del ‘fortino’ Mediobanca può aprire finalmente ad una nuova stagione del capitalismo economico-finanziario italiano”.

Mediobanca, dopo un periodo in cui contribuì positivamente alla stabilizzazione del sistema economico italiano, uscito sconvolto dagli effetti della guerra mondiale, si avviò successivamente, sotto la guida di Enrico Cuccia e dei suoi successori Vincenzo Maranghi e Alberto Nagel, lungo una strada conservatrice diretta a garantire gli equilibri politico-economico-finanziari-industriali dei capitalisti italiani tramite un metodo singolare.

Tale metodo era imperniato sul garantire che i capitalisti più ricchi e potenti, proprietari delle aziende strategiche del paese, controllassero i loro gruppi societari tramite una rete di relazioni di potere tessuta su traffici di influenze e conflitti di interesse macroscopici, sollevandoli però dagli obblighi propri dei capitalisti in un’economia di mercato: di investire, cioè, i capitali ricavati dai profitti industriali in attività tecnologicamente più avanzate, tali da mantenere le aziende competitive sui mercati.

All’esito di questo processo, che ha conosciuto la sua fase più distruttiva di ricchezza nella liquidazione dell’immenso patrimonio industriale già in mano pubblica a favore di privati, che lo hanno successivamente dissipato.

Emblematico, ricorda Ronco, fu il caso della privatizzazione di Telecom in cui venne oltrepassata di gran lunga la soglia della decenza economica, giuridica e morale. Si riporta il seguente breve commento al complesso di operazioni compiute.
Il primo passo fu la decisione nel 1997 del governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi di privatizzare Telecom, società a controllo pubblico che costituiva un gioiello economico di primordine, competitore a livello internazionale in un settore caratterizzato da uno sviluppo innovativo travolgente.

Per questo motivo aveva bisogno di un piano industriale che la rilanciasse nell’economia delle telecomunicazioni, all’epoca in una fase di trasformazione per la imponente diffusione della telefonia mobile.

I capitalisti privati, che assunsero il controllo della società con l’acquisto di quote minime del capitale sociale, erano interessati soltanto agli aspetti finanziari, per fruire della forte redditività della società.

Non elaborarono alcun progetto industriale, abbandonando presto il campo per lasciare spazio a una serie di operazioni finanziarie devastanti. Il passo decisivo fu il lancio dell’OPA nel febbraio 1999 con un leveraged by out senza fusione.

La scatola semivuota degli imprenditori guidati da Roberto Colaninno comprò a debito Telecom facendo ricadere il rimborso agli istituti finanziari sul patrimonio della società. Il governo non frappose alcun ostacolo, nonostante il Presidente di Telecom avesse presentato un piano alternativo all’OPA.

Il Financial Times definì l’operazione di conversione delle azioni “una rapina in pieno giorno”. Il risultato dell’intera operazione sul piano economico fu: “Un saccheggio da 60 miliardi, così i capitalisti senza capitali hanno distrutto un intero settore”.

La somma indicata corrisponde alle risorse “sottratte all’ex monopolista telefonico dalle varie compagini azionarie che si sono succedute. Un immenso spreco di denaro che altrimenti avrebbe potuto scrivere una storia diversa per l’intero sistema Paese”.

In conseguenza di tutto ciò si sono verificati due fattori di indebolimento economico dell’intero sistema nazionale: da un lato, il ristagno, se non la decrescita delle retribuzioni del lavoro dipendente e, dall’altro, l’impoverimento economico della classe media e piccolo borghese del paese.

 

Purtroppo la filosofia di Mediobanca ha favorito per decenni l’egemonia di capitalisti che hanno acquisito e conservato molti capitali per sé, riuscendo a creare veri e propri imperi finanziari e mediatici, ma che si sono mostrati completamente indisponibili a investire capitali nelle loro stesse imprese. Anzi, quando questi capitalisti hanno addirittura acquistato imprese pubbliche in difficoltà finanziaria, anche se in possesso di potenzialità immense di sviluppo in virtù di un know how di altissimo livello, le hanno acquistate a debito, con il marchingegno di origine anglosassone del leveraged by out, facendo ricadere sulle nuove compagini – le famose newco – il peso quasi integrale dell’intera esposizione finanziaria.

L’esito di questi tourbillons ha richiesto frequentemente l’intervento ‘a salvataggio’ dello Stato ovvero di società di equity internazionali, interessate ovviamente a una temporanea rimessa in sesto dei conti, grazie a licenziamenti in massa e alla riduzione delle produzioni, e con la successiva  rivendita profittevole del complesso aziendale ad altri soggetti economici. Talora, poi, le strutture risanate sono rimaste in vita soltanto quali macchine per dividendi da assegnare ai sottoscrittori dei fondi.

Quando il fortino Mediobanca cadrà – e ciò è possibile perché in questo momento i cosiddetti ‘mercati’ sono prudenti nel muovere guerra alle iniziative di capitalisti che impegnano soldi veri; perché le istituzione dell’UE e i governi di Francia e Germania sono alle prese con gravi problemi economico-finanziari interni; perché l’attuale Governo italiano mostra più capacità di resistenza che in passato alla preponderanza degli interessi dei paesi forti dell’UE – allora è evidente il cambiamento di scenario, che in consentirebbe all’Italia di intraprendere un corso nuovo di sviluppo economico, accompagnato dalla reviviscenza della classe media; dal lancio di nuove imprese produttive; dal recupero di livelli salariali adeguati alla crescita del costo della vita; dalla cooperazione economica  leale con i paesi del Mediterraneo e dell’Africa.

 

Taglia

 

Un recente intervento del Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti al meeting di Rimini ha sollecitato in effetti, lungo la linea sopra descritta, il sistema bancario a tradurre le migliori condizioni attuali in “benefici concreti in favore delle famiglie”[4] e gli stessi fondi pensione a indirizzare le ingenti risorse raccolte “più al sistema Italia che all’estero, in investimenti infrastrutturali di lungo periodo che diano un rendimento sicuro, non speculativo”[5].

Ma il cambiamento di scenario sarebbe meramente apparente se i capitalisti, che hanno sino a ora mostrato un certo coraggio nell’impegnare risorse proprie nell’assedio al fortino Mediobanca, tornassero ai metodi precedenti e non usassero il loro potere effettivo per ridare slancio all’economia del paese.

6. Oltre all’auspicio che i capitalisti e, più in generale, gli imprenditori si rendano conto: · che l’assioma attribuito a Cuccia, pur risultando effettivo in una serie innumerevoli di casi, è intrinsecamente falso, perché contrario ai fini della persona umana, e: · che anch’essi possono gustare un poco di felicità su questa terra soltanto a condizione che il loro ingegno, le loro fatiche e il loro denaro si espandano anche a vantaggio dell’intera collettività, deve soprattutto formularsi un monito al Governo, ai suoi rappresentanti, a tutte le parti che lo sostengono e anche alle forze ragionevoli delle opposizioni.

Il monito consiste nell’affermare che esiste un dovere delle istituzioni pubbliche di imporre ai soggetti economici il rispetto del principio, disatteso per troppi anni, statuito dall’art. 41, ultimo capoverso della Costituzione.

 

 

 

 

I cosiddetti ‘poteri forti’ sono ancora fortissimi, anche se in questo momento patiscono delle sofferenze. La loro rivincita, supportata eventualmente da iniziative interdittive della giurisprudenza, internazionale, europea o interna, o di organi ‘indipendenti’, sarebbe contraria al bene del paese: le difese a tutela dell’ordine pubblico economico vanno pensate e anticipate con prudenza, intelligenza e fermezza, conclude Mauro Ronco.

 

[1] Per l’esame di questo processo nel quadro del diritto penale dell’economia cfr. M. Ronco, Fondamenti costituzionali del diritto penale dell’economia, in E. M. Ambrosetti, E. Mezzetti M. Ronco (a cura di), Diritto penale dell’impresa, Bologna, 2022, 1-39.

[2] M. Minghetti, Della economia pubblica e delle sue attinenze con la morale e con il diritto, Firenze,1868.

[3] Emblematico fu il caso della privatizzazione di Telecom in cui venne oltrepassata di gran lunga la soglia della decenza economica, giuridica e morale. Si riporta il seguente breve commento al complesso di operazioni compiute: “Il primo passo fu la decisione nel 1997 del governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi di privatizzare Telecom, società a controllo pubblico che costituiva un gioiello economico di primordine, competitore a livello internazionale in un settore caratterizzato da uno sviluppo innovativo travolgente.. Per questo motivo aveva bisogno di un piano industriale che la rilanciasse nell’economia delle telecomunicazioni, all’epoca in una fase di trasformazione per la imponente diffusione della telefonia mobile. I capitalisti privati, che assunsero il controllo della società con l’acquisto di quote minime del capitale sociale, erano interessati soltanto agli aspetti finanziari, per fruire della forte redditività della società. Non elaborarono alcun progetto industriale, abbandonando presto il campo per lasciare spazio a una serie di operazioni finanziarie devastanti./ Il passo decisivo fu il lancio dell’OPA nel febbraio 1999 con un leveraged by out senza fusione. La scatola semivuota degli imprenditori guidati da Roberto Colaninno comprò a debito Telecom facendo ricadere il rimborso agli istituti finanziari sul patrimonio della società. Il governo non frappose alcun ostacolo, nonostante il Presidente di Telecom avesse presentato un piano alternativo all’OPA. Il Financial Times definì l’operazione di conversione delle azioni “una rapina in pieno giorno”. Il risultato dell’intera operazione sul piano economico fu: “Un saccheggio da 60 miliardi, così i capitalisti senza capitali hanno distrutto un intero settore”. La somma indicata corrisponde alle risorse “sottratte all’ex monopolista telefonico dalle varie compagini azionarie che si sono succedute. Un immenso spreco di denaro che altrimenti avrebbe potuto scrivere una storia diversa per l’intero sistema Paese”. / L’operazione fu compiuta in spregio del diritto vigente in quanto integrò in modo palese la violazione degli artt. 2357 e 2630 del codice civile. Una volta che il business finanziario fu concluso il legislatore del 2003 abrogò il divieto previsto dall’art. 2357 e cancellò il presidio penalistico di cui all’art. 2630”, così  M. Ronco, in Diritto penale dell’impresa, cit., 16-17.

[4] G. Giorgetti, Corriere della Sera, 24 agosto 2025.

[5] Ibidem.

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Autore
Blitz

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