Ora solare, lancette indietro di un’ora: ecco gli effetti su salute, sonno e tutti i miti del tempo che cambia
- Postato il 25 ottobre 2025
- Di Panorama
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Quando l’orologio segna la notte tra il 25 e il 26 ottobre, l’Italia torna indietro. Letteralmente. Le lancette si spostano di un’ora, la luce arriva prima, il buio cala in anticipo e l’autunno entra nel suo pieno. È il ritorno dell’ora solare, un rituale che da oltre un secolo accompagna la vita dei Paesi occidentali, ma che oggi molti mettono in discussione. Perché dietro un gesto apparentemente innocuo si nasconde una delle illusioni più persistenti del mondo moderno: credere di poter manipolare la luce, il tempo e persino il corpo.
Da dove nasce il cambio dell’ora
L’idea di “rubare” luce al mattino per regalarla alla sera risale al 1784, quando Benjamin Franklin scrisse una lettera ironica al Journal de Paris proponendo di risparmiare candele svegliandosi prima. L’idea venne ripresa durante la Prima guerra mondiale: Germania e Regno Unito adottarono per primi l’ora legale per risparmiare carbone. In Italia arrivò nel 1916 e da allora, tra sospensioni e riprese, è diventata parte del calendario.
Ma non tutto il mondo si è lasciato convincere. Oggi circa 70 Paesi – per lo più in Europa, Nord America e parte dell’America Latina – spostano ancora le lancette due volte l’anno. Oltre 160, invece, hanno scelto di non farlo. Nelle regioni tropicali e vicino all’equatore, dove il giorno e la notte durano quasi sempre uguale, il cambio orario non avrebbe senso. Negli Stati Uniti lo adottano 48 Stati, ma non le Hawaii e gran parte dell’Arizona, dove la temperatura elevata e le giornate stabili rendono inutile allungare la luce serale.
Italia, tra luce e bollette
Per il 2025, secondo i dati di Terna, nei sette mesi di ora legale – da marzo a ottobre – l’Italia ha risparmiato 310 milioni di kilowattora di energia elettrica, equivalenti al fabbisogno annuo di circa 120 mila famiglie. Un risparmio di circa 90 milioni di euro e una riduzione delle emissioni di anidride carbonica pari a 145 mila tonnellate. In termini ambientali, è come piantare 4 milioni di alberi.
Dal 2004 al 2025, il minor consumo complessivo generato dall’ora legale ha superato i 12 miliardi di kilowattora, traducendosi in un risparmio economico di circa 2,3 miliardi di euro. Ma anche qui, i numeri non raccontano tutto. Con l’evoluzione delle abitudini quotidiane, l’uso massiccio di condizionatori e l’aumento del lavoro serale in ambienti illuminati artificialmente, molti esperti sostengono che il vantaggio energetico si stia riducendo.
Dove il tempo non cambia mai
Nel mondo, il rapporto con la luce è geografico. Nei Paesi nordici, dove l’inverno porta giorni di buio quasi totale, l’ora legale ha un effetto tangibile: guadagnare luce serale in estate significa vivere più all’aperto, ridurre il consumo elettrico e migliorare l’umore. Ma avvicinandosi all’equatore, la differenza si annulla: a Singapore, Nairobi o Bogotà il sole sorge e tramonta quasi alla stessa ora tutto l’anno, e per questo il cambio orario non è mai stato adottato.
In Asia, Giappone e Cina hanno provato ad applicarlo, ma l’hanno abbandonato negli anni Ottanta. In Russia, dopo anni di sperimentazioni, si è scelto di adottare l’ora solare permanente. L’Unione Europea, invece, ha lasciato libertà di scelta: dal 2019 ogni Stato membro può decidere se mantenere o eliminare il cambio. Alcuni, come la Finlandia, spingono da tempo per abolirlo; altri, come l’Italia, restano ancorati alla tradizione.
Il corpo contro le lancette
Dietro ogni cambio orario si muove un piccolo terremoto biologico. L’uomo è governato da un orologio interno, il ritmo circadiano, sincronizzato con la luce naturale. Quando lo si altera, anche solo di un’ora, l’organismo reagisce: sonno disturbato, sbalzi d’umore, calo di concentrazione, e nei soggetti più sensibili, variazioni di pressione e frequenza cardiaca.
Uno studio dell’Università di Stoccolma ha rilevato un aumento del 4% degli infarti nella settimana successiva al ritorno all’ora solare. Altri studi condotti negli Stati Uniti hanno notato un incremento degli incidenti stradali nei giorni immediatamente successivi al cambio. Il National Bureau of Economic Research ha stimato che il rischio di infortuni sul lavoro aumenta del 5% e la produttività cala in media del 3%.
In Australia, alcune ricerche hanno evidenziato un incremento dei suicidi e dei disturbi dell’umore nelle settimane che seguono il cambio d’ora autunnale, collegato alla riduzione di luce serale. Il cosiddetto “Seasonal Affective Disorder” – la depressione stagionale – trova terreno fertile nei mesi invernali, quando la luce si riduce e il ritmo circadiano fatica a stabilizzarsi.
Est, ovest, sud: il tempo non è uguale per tutti
A oriente, dove il sole sorge prima, il cambio d’ora viene percepito meno; a occidente, invece, le giornate sembrano accorciarsi bruscamente. L’effetto geografico è determinante: in Spagna, ad esempio, Madrid è più a ovest di Roma ma condivide lo stesso fuso, e questo fa sì che il sole tramonti molto più tardi. Per questo, ogni modifica oraria agisce in modo diverso sul corpo e sulla vita sociale delle persone.
In Scandinavia o in Canada, dove il sole scompare per mesi, si fa largo il concetto di “light therapy”, la terapia della luce: lampade speciali che simulano la luminosità naturale per regolare il ritmo sonno-veglia e ridurre gli effetti della carenza di luce.
Al sud, invece, dove il ciclo della luce è più stabile, l’ora legale serve a poco: per questo in Africa e in gran parte dell’Asia non viene adottata. Il tempo, in quelle latitudini, resta una costante naturale, non un artificio.
Miti e leggende del tempo
Molto prima degli orologi, il tempo era una narrazione, non una misura. Gli antichi lo spiegavano con storie, simboli e divinità che incarnavano la luce, il buio, la rinascita e la morte. Era un modo per dare senso a ciò che sfuggiva al controllo umano: il mutamento.
La mitologia greca fu tra le prime a codificare il ritmo delle stagioni attraverso la leggenda di Persefone, figlia della dea della fertilità Demetra e del re degli dèi Zeus. Rapita da Ade e costretta a vivere per sei mesi l’anno nel regno dei morti, Persefone rappresentava la ciclicità stessa della natura. Durante la sua assenza, Demetra, disperata, lasciava seccare la terra e morire i raccolti: era l’inverno. Quando Persefone risaliva in superficie, la gioia della madre restituiva vita al mondo, e tornava la primavera. Una narrazione che è, in fondo, la prima forma poetica di un calendario naturale.
Nel Nord dell’Europa, il passaggio delle stagioni veniva invece raccontato attraverso spiriti e figure di confine. In Romania, la leggenda di Baba Dochia è ancora viva: una vecchia pastora, ingannata dal clima capriccioso di fine inverno, decide di liberarsi dei suoi nove cappotti uno dopo l’altro, credendo che la primavera sia arrivata. Ma un improvviso ritorno del freddo la sorprende e la pietrifica insieme al suo gregge. Il racconto è un monito contro la presunzione di poter dominare il tempo — e una metafora perfetta della fragilità umana di fronte alla natura che cambia.
Anche nell’antica Roma il tempo aveva un volto. Vertumnus, dio del mutamento e delle stagioni, presiedeva al ciclo delle messi, alle trasformazioni dei frutti, al passaggio dalla crescita alla maturità. Il suo nome deriva da vertere, “volgere”, “cambiare”: era il simbolo del divenire, del continuo scorrere. Spesso raffigurato con una ghirlanda di fiori in primavera e grappoli d’uva in autunno, Vertumnus incarnava la continuità e la metamorfosi insieme, ricordando agli uomini che ogni stagione porta in sé la promessa della successiva.
Altri popoli hanno creato miti simili. Nelle culture nordiche, Skadi, la dea dell’inverno, sfida gli dèi per reclamare la sua libertà e porta con sé la neve e il gelo fino a quando, stanca, cede il passo a Freyr, divinità della fertilità e dell’estate. In Giappone, il ciclo stagionale è rappresentato dal mito di Amaterasu, la dea del sole che, irritata dalle azioni del fratello Susanoo, si rinchiude in una caverna, lasciando il mondo nell’oscurità. Solo l’astuzia degli altri dèi, che la attirano fuori con uno specchio e una danza, restituisce la luce al mondo: un’allegoria della rinascita dopo il buio.
Questi racconti, nati secoli prima dell’invenzione dell’energia elettrica e del tempo industriale, avevano tutti lo stesso scopo: spiegare la luce. O meglio, spiegare la sua perdita e il suo ritorno. Il passare delle stagioni, l’alternanza tra giorno e notte, il crescere e il decadere erano fenomeni cosmici che l’uomo osservava con timore e devozione, trasformandoli in memoria collettiva.
Oggi, l’uomo moderno misura il tempo con orologi atomici e algoritmi, ma la sua relazione con la luce non è meno inquieta. Abbiamo sostituito gli dèi con i calendari, le stelle con i display digitali, le caverne di Amaterasu con le nostre case illuminate a LED. Eppure, l’ansia di controllare il sole, di possedere un’ora in più o in meno, resta la stessa. Cambiare l’orario due volte l’anno non è così lontano dai riti arcaici che cercavano di trattenere la luce: solo che oggi, invece di sacrifici e offerte, spostiamo le lancette.
In fondo, il mito più contemporaneo è proprio questo: credere che la tecnologia possa fare ciò che un tempo era prerogativa degli dèi. Ma il corpo, come la terra di Demetra, continua a ricordarci che la luce non si comanda. Si attende, si vive, e si perde.
Il prezzo nascosto del tempo
Ogni anno, due volte l’anno, milioni di persone spostano le lancette avanti e indietro. Un gesto minuscolo, ma dagli effetti reali. Le società di medicina e i gruppi ambientalisti italiani, come Sima e Codacons, chiedono da tempo di adottare l’ora legale permanente: significherebbe più luce, meno consumi e meno stress biologico.
Non tutti concordano: secondo alcuni economisti, la flessibilità oraria permette di adattarsi meglio ai cicli produttivi stagionali. Ma la verità è che oggi il risparmio energetico non è più la motivazione principale: con l’evoluzione tecnologica, i vantaggi sono marginali, mentre l’impatto sulla salute resta.
Il tempo, in fondo, è una convenzione, ma anche un confine invisibile tra corpo e società. E forse il vero lusso, in un mondo che corre, non è guadagnare un’ora in più, ma imparare a viverla senza doverla spostare.