Ospitalità, territorio e impresa: il modello La Bursch 

  • Postato il 12 dicembre 2025
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  • Di Forbes Italia
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In una zona tranquilla delle Alpi biellesi, la Valle del Cervo conserva piccoli borghi e paesaggi montani poco trasformati. Lungo la strada che attraversa la valle si trova Campiglia Cervo, un paese semplice e raccolto. Qui sorge La Bursch Country House, una casa del XVII secolo che fu di un console prussiano e che Barbara Varese ha restaurato.

Le otto camere si affacciano su un giardino e su un laghetto naturale dove è possibile fare il bagno. La struttura offre una biblioteca, un piccolo centro benessere e vari spazi comuni, tra cui l’antica cucina con il camino, pensati per un’accoglienza sobria e familiare.

Una cucina che racconta la valle

La cucina è un elemento centrale, una voce narrativa capace di tradurre il territorio in emozione gastronomica. A guidare il ristorante aperto anche agli ospiti esterni è Erika Gotta, giovane e brillante chef piemontese, classe 1993, che negli ultimi anni ha conquistato l’attenzione della critica e riconoscimenti prestigiosi – tra cui l’ambita stella verde Michelin. La sua è una cucina che respira con la montagna: ortaggi dell’orto, erbe spontanee raccolte nei dintorni, farine di piccoli mulini della valle, formaggi dell’agriturismo Mazzucchetti, carni e prodotti che appartengono a una filiera cortissima. Erika Gotta intreccia tradizione piemontese e creatività personale, costruendo piatti che parlano di boschi, di stagioni, di silenzi alpini. E di quella gestualità antica – come il pane impastato a mano con farina di Ronco Biellese – che restituisce autenticità a ogni ingrediente.

Il ristorante non ha una sola sala ma diversi ambienti intimi all’interno della dimora, ciascuno con un carattere unico: l’antica cucina, il salotto dell’arte, il tavolo comune. Non esiste un’unica scenografia, ma una costellazione di luoghi dove ogni ospite può ritrovare la sensazione di essere accolto “a casa”.

Abbiamo intervistato Barbara Varese, anima creativa e proprietaria de La Bursch per capire da dove nasce il progetto e quale sarà il suo futuro.

Come è nato il progetto a livello imprenditoriale? Come si sta evolvendo?

Una delle peculiarità della Bursch è proprio il modo in cui è nata: non da un business plan, non da una scelta imprenditoriale razionale, ma da un percorso molto personale. Il cuore della Bursch – che oggi comprende diversi edifici, angoli e vicoli settecenteschi – era un tempo semplicemente la casa di montagna di mio padre e dei miei nonni. È un luogo che, da ragazza, avevo in qualche modo allontanato – forse per ragioni intime, forse inconsce – e che dopo la scomparsa della mia famiglia è rimasto chiuso per quasi quindici anni. Io stessa lo avevo chiuso in un cassetto della memoria. Sono state le mie figlie, Giorgia ed Eleonora, le prime a riaprirlo. E mi piace pensare che, un po’ ironicamente forse, sia stato proprio il filo della famiglia a riportarmi verso le mie radici. Ho ricominciato a frequentare questi luoghi con loro, nel silenzio dell’intimità, riscoprendo la natura, il senso del tempo lento, perfino la fatica dei lavori da fare per rendere di nuovo abitabile ciò che la montagna aveva ripreso per sé: tubature esplose, cavi mangiati, radici che attraversavano stanze intere. Nel 2018 la mole dei lavori era quasi comica nella sua assurdità. Eppure l’entusiasmo, quando mette radici, ha una forza tutta sua. Da qualche amico ospitato per caso, siamo passati al desiderio di condividere questo luogo con sempre più persone. Prima immaginandolo come spazio per meeting e team building, poi, 0quasi naturalmente, trasformandolo in una country house e ristorante. A distanza di soli sette anni da quando ho ripreso in mano quelle chiavi, La Bursch è diventata un piccolo ecosistema: diciassette camere, un ristorante, una cantina, un bistrot e un orto, un biolago balneabile, un parco che ha visto feste, matrimoni, eventi, incontri. Un team di oltre venti persone e ospiti che arrivano sempre più spesso dall’estero.

Come si è mosso negli ultimi anni il turismo per l’Alto Biellese? O La Bursch è più una meta-destinazione? Cosa la rende unica?

Negli ultimi anni, nell’Alto Biellese sta accadendo qualcosa di molto bello: territori che per decenni sono stati legati quasi esclusivamente al tessile stanno riscoprendo una vocazione diversa, più umana, più sostenibile. Si sta passando da un’economia “di fabbrica” a un turismo lento, fatto di natura, cammini, cultura, piccole eccellenze che stanno restituendo alle persone le occupazioni perse con la crisi del settore industriale. E non è solo un cambiamento spontaneo: è frutto del lavoro di associazioni come Fondazione Biellezza, di imprenditori e realtà locali che stanno credendo davvero nel rilancio di questi luoghi. In questo contesto e per sua natura, La Bursch oggi è forse più una meta-destinazione a sé, vista la sua natura particolare sul territorio. Stiamo però lavorando sempre più su un discorso di marketing territoriale. Collaboriamo con guide locali, stringiamo convenzioni con altre realtà, ospitiamo spesso scuole del biellese per piccole gite fuori porta e organizziamo sempre più eventi di interesse locale, che possano in qualche modo arricchire la proposta del territorio e fungere da facilitatori per nuovi incontri, idee e relazioni – che è un po’ il concetto chiave da cui nasce questo luogo.

Ha puntato su una chef molto giovane… ci racconti questa scelta e come vi siete conosciute.

La storia con Erika Gotta è nata in un modo che ancora oggi mi fa sorridere. Ero in quella fase in cui cerchi disperatamente “la persona giusta”, qualcuno che abbracci la tua filosofia senza forzarla. Cercavo qualcuno che avesse talento, certo, ma soprattutto sensibilità, fantasia, umiltà, amore per la terra. Ho quindi scritto su Instagram a Maurizio Rosazza — originario di queste valli e secondo classificato in un’edizione di MasterChef — che era passato da noi incuriosito dal progetto. È stato lui a presentarmi Erika, sorella della sua fidanzata Alida. Lei allora lavorava in Svizzera, ma sentiva già il bisogno di trovare un luogo dove poter crescere davvero, e darsi la libertà di cui sentiva l’esigenza. Quando ci siamo incontrate è stato un colpo di fulmine professionale e umano. Io avevo bisogno di una creatrice, non di uno chef “impostato”. Lei aveva bisogno di un luogo dove mettere radici e sperimentare. Dico spesso che siamo un po’ mamma e figlia, ma in realtà siamo cresciute insieme: lei cucinando quello che la valle le suggeriva, io costruendo intorno a lei la casa che avevo sognato. Quello che oggi è il ristorante della Bursch — premiato, coraggioso, sorprendente — è frutto della nostra sintonia. È una cucina che non vuole impressionare, ma emozionare.

Ci racconti della Stella Verde: orto, prodotti della valle, erbe spontanee. Come è nata questa scelta? Sua o della chef?

Quella della sostenibilità, dell’orto, della filiera corta, non è stata una scelta “strategica”: è stata una scelta naturale, quasi inevitabile. Io sono cresciuta con l’immagine dei miei nonni che la mattina andavano nell’orto a raccogliere frutta e verdura. Per me la cura passa da lì: dal coltivare, dal rispettare i cicli, dal prendersi cura lentamente delle cose. Erika Gotta, dal canto suo, aveva il desiderio di lavorare con ingredienti veri, vivi, che avessero un legame diretto con la valle. Alcune erbe e piante che cercava non erano reperibili nei normali canali di approvvigionamento… e così abbiamo iniziato a coltivarle noi. Da lì è nato un piccolo mondo: l’orto, la raccolta delle erbe spontanee nei boschi, la collaborazione con micro-produttori locali che spesso custodiscono antiche tecniche di famiglia. È stato davvero un lavoro a quattro mani: io con la mia visione di “casa che si prende cura”, lei con la sua creatività e il suo desiderio di riportare nei piatti la voce del territorio. La Stella Verde Michelin è arrivata come una conferma: non del risultato, ma del modo in cui abbiamo scelto di camminare. Una cucina che non consuma il territorio, ma lo onora. Che non pesca altrove quello che può crescere qui. Che guarda alla terra come a un’alleata, non una risorsa da sfruttare.

Lei non viene dall’hôtellerie. Come mai si è spinta in questa missione?

È vero, non provengo dal mondo dell’hôtellerie. La mia vita professionale è stata per anni legata all’edilizia e ai cantieri, e forse proprio questa esperienza mi ha dato la tranquillità di affrontare la riqualificazione di un borgo intero senza esserne intimidita. Avevo già una certa familiarità con progetti complessi, con la lettura di un edificio, con il lavoro sulle strutture: elementi che sono stati fondamentali per riportare la Bursch al suo potenziale. Ma la verità è che la Bursch non è nata come un progetto alberghiero, ma come il desiderio di ridare dignità a una casa di famiglia rimasta chiusa per quindici anni, piena di ricordi e di oggetti appartenuti alle generazioni che mi hanno preceduta. Sentivo che non poteva rimanere abbandonata a se stessa: meritava un nuovo ciclo di vita, un po’ per un mio riscatto personale, un po’ per seguire la mia attitudine e passione silenziosa per il prendersi cura degli altri. Da lì tutto è avvenuto in modo molto naturale: il piacere di condividere la tavola con gli amici, la mia inclinazione all’accoglienza, il gusto per le cose curate e per il buon cibo hanno iniziato a prendere una forma concreta. A poco a poco il progetto si è allargato, diventando quello che oggi è la Bursch. Non è stata una “missione” studiata: è stato un processo di restituzione e di rinascita, per la casa, per il borgo e sicuramente anche per me. Oggi la Bursch è un luogo che vive di nuovo, e vedere che questo fa stare bene chi arriva qui è ciò che mi ha convinta e mi convince, giorno dopo giorno, a continuare in questa direzione.

L’articolo Ospitalità, territorio e impresa: il modello La Bursch  è tratto da Forbes Italia.

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Forbes Italia

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