Pace a Gaza appesa a un uomo: chi è Izz al-Din al Haddad, il “fantasma” che sfida Trump
- Postato il 3 ottobre 2025
- Di Panorama
- 1 Visualizzazioni


Secondo quanto riportato da Al Arabiya, il piano di pace promosso da Donald Trump per porre fine alla guerra di Gaza sta incontrando resistenze non soltanto a livello regionale, ma soprattutto all’interno di Hamas. L’organizzazione appare spaccata e incapace di assumere una posizione definitiva, nonostante le forti pressioni esercitate da Washington e dalla maggior parte delle capitali arabe. Per non perdere la scadenza fissata dall’ex presidente statunitense, i principali mediatori – Qatar, Egitto e Turchia – hanno elaborato una formula ponte: Hamas dichiarerebbe un’accettazione di principio del piano, rimandando a una conferenza internazionale la discussione dei dettagli. L’incontro, che dovrebbe tenersi nelle prossime settimane, coinvolgerebbe i Paesi del Golfo, Israele, Stati Uniti, rappresentanti europei e le stesse fazioni palestinesi. Sul fronte americano il dossier è seguito dall’inviato speciale Steve Witkoff e da Jared Kushner, genero di Trump e già architetto di precedenti iniziative diplomatiche nella regione vedi gli “Accordi di Abramo“
Uno dei principali ostacoli riguarda la tempistica del cessate il fuoco. Hamas pretende che lo stop alle ostilità entri in vigore immediatamente dopo l’annuncio di adesione ai principi del piano, con la sospensione automatica delle operazioni israeliane. Israele rifiuta questa condizione e sostiene che la tregua scatterà soltanto dopo un consenso formale di tutte le fazioni palestinesi. Solo allora partirebbe un conto alla rovescia di tre giorni per il rilascio degli ostaggi. Hamas ha già fatto sapere ai mediatori che tre giorni non basteranno per contattare tutti i gruppi che detengono prigionieri, sottolineando inoltre la possibilità che la Jihad Islamica Palestinese – anch’essa in possesso di ostaggi – possa rifiutarsi di rispettare l’intesa. Non a caso l’organizzazione ha già dichiarato ufficialmente la sua contrarietà al piano.
L’ostacolo più pesante è rappresentato da un uomo: Izz al-Din al Haddad, il comandante delle Brigate Qassam a Gaza, conosciuto con il soprannome di «il fantasma». Figura quasi leggendaria per i miliziani, ma difficilmente rintracciabile per i servizi di intelligence, al Haddad ha costruito la sua reputazione sul campo, guidando unità operative nei combattimenti urbani di Khan Younis e Rafah. Dopo l’uccisione dei fratelli Sinwar, ha assunto la guida militare dell’ala armata e consolidato una leadership ferrea. Convinto che il piano di Trump sia un «capestro» destinato a disarmare Hamas e a cancellare le Brigate Qassam, al Haddad si oppone a qualsiasi ipotesi di compromesso. La sua posizione è di totale rifiuto, con la determinazione a proseguire la lotta armata. E la sua influenza è cruciale: da lui dipende la riconsegna dei 48 ostaggi ancora nelle mani di Hamas, tra vivi e morti. Una sua decisione negativa potrebbe dunque far deragliare l’intero negoziato. Originario del quartiere di Shuja’iyya, al Haddad proviene da una famiglia povera e numerosa. Entrato giovanissimo nelle Brigate Qassam, si è distinto per abilità logistiche e conoscenze tecniche nella costruzione di tunnel e ordigni esplosivi. Col tempo ha stretto legami diretti con i Pasdaran iraniani e con Hezbollah libanese, assumendo il ruolo di tramite per i rifornimenti di armi e tecnologie belliche. Gli apparati israeliani lo descrivono come un comandante prudente, quasi invisibile, capace di muoversi attraverso una fitta rete di tunnel sotterranei e di mantenere un contatto costante con le sue cellule operative. Da qui il soprannome di «fantasma», emerso già nel 2022 quando, dopo un’incursione israeliana a Gaza, era dato per morto salvo poi ricomparire poche settimane dopo alla guida di un attacco con razzi contro Ashkelon. L’uccisione dei fratelli Yahya e Mohammed Sinwar lo ha proiettato definitivamente al comando delle Qassam. A differenza dei Sinwar, dotati di una forte dimensione politica, al Haddad (sotto nella foto) , appare come un puro uomo d’armi: schivo, radicale, ostinato. Per molti analisti è l’incarnazione della linea più dura, quella che rifiuta qualunque negoziato se non subordinato alla prosecuzione della «resistenza armata».

Nonostante tali resistenze, i mediatori regionali confidano che Hamas possa offrire entro l’inizio della prossima settimana una risposta articolata, probabilmente una «accettazione condizionata» con richieste di modifiche e chiarimenti. In questa direzione spinge soprattutto la Turchia, che ha mutato gli equilibri diplomatici con un approccio duplice: da un lato incoraggia Hamas a non chiudere la porta, dall’altro insiste perché accetti il piano come unica via praticabile per fermare la guerra.Anche il Qatar ha abbandonato la tradizionale postura di neutralità (che sappiamo essere falsa dato che è il principale finanziatore di Hamas), e si è affiancato all’Egitto nelle pressioni su Hamas, in linea con gli impegni presi con Washington. Nessuno dei due Paesi ha minacciato direttamente l’espulsione dei leader del movimento in caso di rifiuto, ma entrambi lasciano intendere di poter utilizzare questa carta se la resistenza dovesse irrigidirsi.
Dal lato americano, fonti diplomatiche ribadiscono che Trump considera il suo piano come l’unica strada per chiudere il conflitto. Se Hamas lo respingerà o chiederà modifiche inaccettabili per Israele, Washington sosterrà pienamente le operazioni militari israeliane. Alcune clausole sono già in corso di applicazione, come rivelato dal quotidiano Israel Hayom: Israele ha approvato un elenco di centinaia di lavoratori palestinesi che assumeranno incarichi amministrativi nella nuova autorità di governo di Gaza, parte integrante del piano. Hamas si trova dunque davanti a una scelta cruciale: da un lato il rischio dell’isolamento internazionale, dall’altro l’opportunità di agganciarsi a un processo negoziale che vede sempre più Stati arabi schierati a favore del piano Trump. La variabile decisiva resta il “fantasma” di Gaza. Se Izz al-Din al Haddad confermerà la sua opposizione, l’intero negoziato rischia di saltare. Se invece accetterà, almeno in parte, di piegarsi alle pressioni di Qatar, Egitto e Turchia, Hamas potrebbe aprire la strada a una svolta storica. Ma, al momento, la sua linea dura sembra destinata a pesare più di ogni diplomazia.