“Pacemaker” cerebrale per uomo depresso da 30 anni, “ha pianto di gioia dopo prima stimolazione”

  • Postato il 22 agosto 2025
  • Scienza
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Un uomo affetto da una grave depressione da oltre trent’anni sembra essere in remissione, grazie a un “pacemaker” cerebrale creato su misura che attiva selettivamente diverse aree del suo cervello. “Ha provato gioia per la prima volta dopo anni”, afferma Damien Fair dell’Università del Minnesota, tra gli ideatori del nuovo approccio, descritto sul server di preprint PsyArXiv, quindi senza revisione.

La depressione resistente al trattamento è una condizione piuttosto comune. Si tratta di una forma della malattia contro la quale falliscono almeno due tipi di antidepressivi. In questi casi, la terapia elettroconvulsivante (TEC) può essere d’aiuto, ma spesso neanche questa opzione riesce a dare sollievo. “Sono trattamenti universali; si agisce sullo stesso punto [del cervello] per tutti”, afferma Fair. Considerato che ogni cervello è diverso e che quindi con la TEC non sempre si riescono colpire le regioni, non tutte le persone riescono a ottenere sollievo

Fair e i suoi colleghi hanno così sviluppato un approccio più personalizzato per un uomo di 44 anni, ricoverato per la prima volta in ospedale per depressione a soli 13 anni. Nella sua lunga lotta contro la malattia ha provato 20 trattamenti, tra cui antidepressivi, psicoterapia e TEC, ma nessuno ha avuto un impatto duraturo. “È uno dei casi di depressione più gravi; ha tentato il suicidio tre volte”, afferma Fair. Per provare ad aiutarlo i ricercatori hanno prima scansionato il cervello del paziente per 40 minuti, utilizzando la risonanza magnetica. In questo modo hanno mappato i confini di quattro reti di attività cerebrale collegate alla depressione. Gli studiosi hanno così scoperto che la “rete di salienza” dell’uomo, ovvero quel sistema che aiuta a elaborare gli stimoli, è quattro volte più grande di quella delle persone senza depressione. Questo, secondo Fair, potrebbe aver contribuito ai suoi sintomi.

Successivamente, i ricercatori hanno impiantato chirurgicamente quattro gruppi di elettrodi lungo i confini mappati, inserendoli attraverso due piccoli fori praticati nel cranio. Tre giorni dopo, gli scienziati hanno inviato deboli impulsi elettrici attraverso fili esterni collegati agli elettrodi, stimolando ciascuna delle quattro reti cerebrali in modo isolato. Quando hanno stimolato la prima rete, coinvolta nell’introspezione e nella riflessione, l’uomo ha versato lacrime di gioia. “Ero semplicemente euforico”, dice Fair. Con la stimolazione della rete “modalità d’azione”, coinvolta nella pianificazione delle azioni, e della rete di salienza il paziente ha riferito di provare una sensazione di calma. Quando invece è stata colpita la rete frontoparietale, coinvolta nel processo decisionale, l’uomo ha riferito una maggiore concentrazione.

Sulla base delle testimonianze dell’uomo, il team ha collegato i fili degli elettrodi a due piccole batterie impiantate appena sotto la pelle intorno alla clavicola, consentendogli di sperimentare questi benefici anche al di fuori dell’ospedale. L’impianto agisce come una sorta di “pacemaker cerebrale”, stimolando diverse reti del cervello per 1 minuto, ogni 5 minuti, durante tutto il giorno. Nei sei mesi successivi, l’uomo ha utilizzato un’app collegata in modalità wireless al pacemaker per alternare, a intervalli di pochi giorni, diversi schemi di stimolazione cerebrale progettati dal team di ricerca. Il paziente anche registrato quotidianamente i sintomi depressivi riportati. Analizzando questi dati ogni mese, il team ha continuato a ottimizzare la stimolazione fino a sei mesi dopo l’intervento.

Ma anche dopo sette settimane dall’intervento, l’uomo ha smesso di avere pensieri suicidi. Dopo 9 mesi, è entrato in remissione. Questo miglioramento si è mantenuto per oltre due anni e mezzo, fatta eccezione per un breve periodo in cui i suoi sintomi sono leggermente peggiorati dopo aver contratto il Covid-19. “Questo è un risultato straordinario”, afferma al New Scientist Mario Juruena del King’s College di Londra. “È un’ottima dimostrazione di concetto che potrebbe rappresentare un approccio davvero importante per i pazienti affetti da depressione resistenti al trattamento e difficili da curare”, conclude.

Valentina Arcovio

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