«Padre Fedele morto due volte». Dall’arresto all’assoluzione
- Postato il 14 agosto 2025
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Il Quotidiano del Sud
«Padre Fedele morto due volte». Dall’arresto all’assoluzione
Il racconto: dal giorno del clamoroso arresto all’assoluzione definitiva di Padre Fedele. Il 23 gennaio 2006 la notizia choc
«OGGI è il giorno più bello della mia vita, perché mi sento più vicino a Gesù Cristo, perseguitato e ucciso». Era il 23 gennaio del 2006, Padre Fedele aveva appena lasciato la Questura di Cosenza, con in mano la sua croce: un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. L’accusa era quella di aver violentato un suora, sua collaboratrice, all’interno dell’Oasi Francescana, struttura di accoglienza per poveri da lui costruita mattone dopo mattone. Un frate accusato di abusi su una religiosa: una vera e propria bomba, la notizia delle notizie.
Padre Fedele, “il monaco”, il capo ultrà, il missionario, il povero tra i poveri, si ritrovò su tutte le prime pagine dei quotidiani e alle aperture di tutti i telegiornali. Era già famoso di suo, ma non certo per questi fatti. Di lui si parlava unicamente per le sue missioni e il suo essere ultrà tra gli ultrà. All’uscita della Questura abbassò il finestrino sorridente e salutò tutti: «Sono un martire – disse – e perdono chi mi accusa, così come Gesù fece coi suoi crocifissori».
Ero abituato a incrociarlo in curva, con addosso la sciarpa degli ultrà Cosenza, cantare il suo famoso “Maracanà” o a vederlo arrampicarsi sugli impianti di illuminazione dello stadio per far sventolare ancora più in alto la bandiera rossoblù o a sfottere gli allenatori avversari di turno (famoso lo scambio di battute con Bolchi, all’epoca allenatore del Bari) o a piangere per le morti di Bergamini e Catena. Quel giorno di gennaio, da cronista di nera e giudiziaria, mi ritrovai a scrivere della sua vicenda. Il suo arresto e quella incredibile accusa raggelarono Cosenza. E io dovetti essere terzo e far parlare soprattutto le carte. Non fu facile. Fui tra i primissimi ad avere l’ordinanza e a leggere quelle accuse.
A Cosenza arrivarono truppe di giornalisti e troupe televisive. Il caso andava seguito e le accuse stimolavano. Ricordo che fui intervistato da studio da una giornalista di Mediaset. Alla domanda su cosa ne pensassi di quelle accuse, risposi che era ancora troppo presto per sbilanciarsi e che il tutto doveva essere dimostrato e vagliato dai giudici. «Allora lei – questa la risposta un po’ seccata della conduttrice – sta sostenendo che padre Fedele è innocente?». Ribattei garbatamente che non spettava a me dirlo. Volevano il colpevole a tutti i costi. Attorno a me gli ultrà scalpitavano, urlando l’innocenza del frate. Furono giorni davvero caldi e difficili.
Padre Fedele fu spedito il più lontano possibile dalla sua città, in stato di arresto. L’allora vescovo di Cosenza, monsignor Salvatore Nunnari, avvertì l’esigenza di rassicurare i fedeli cosentini: «Evitiamo – scrisse in una nota ufficiale – ogni giudizio frettoloso anche per essere fedeli discepoli di Gesù, che ci ha detto che nessuno può scagliare pietre contro gli altri, senza prima esaminare se stesso». In merito a padre Fedele aggiunse: «Mi sento di dire che la sua vita espressa in esuberanza caratteriale non gli ha mai spento la sua passione per i poveri e i provati della vita».
Tesi innocentiste e colpevoliste si alternarono in quei giorni schizofrenici. Le vite di presunta vittima e presunto colpevole furono scannerizzate con viaggi fino a Barcellona Pozzo di Gotto, paese di origine della suora. Ci sono passato proprio in questi giorni, davanti l’ingresso di questa cittadina in provincia di Messina, e mi sono chiesto chissà cosa stesse facendo in quel momento quella religiosa e, soprattutto, come stesse padre Fedele. Lo sapevo malato a letto e speravo ce la facesse. L’ultima volta lo avevo visto, già sofferente, col saio lungo Corso Mazzini, seduto. Ci siamo salutati, ma aveva lo sguardo triste. Chiedeva aiuto per i poveri. Cosa che ha fatto per tutta la sua vita. Era fiero della sua laurea in Medicina, che ha sfruttato per aiutare i poveri nelle sue missioni in Africa. E ha continuato a farlo anche durante la sua vicenda giudiziaria, che lo ha sicuramente minato psicologicamente.
Soffriva per la sua sospensione a divinis e, fino all’ultimo, per il fatto che non potesse più celebrare messa davanti ai fedeli. Ricordo il processo di primo grado, con la madre superiore della suora che riceveva a uno a uno i giornalisti per una intervista in un’aula adiacente quella del procedimento penale. Quel processo si svolse a porte chiuse, considerato il tipo di reato, ma si sentiva alcune volte il frate tuonare contro quelle accuse. In quei giorni scrisse anche lui una lettera, che inviò a tutti i cosentini: «Sappiate – scrisse – che non solo sono innocente, ma sono sereno e contento. Il sacerdote vero deve soffrire, come i santi, come i martiri. Vincerò, perché sono sempre con Cristo e sarò felice di più se mi mettessero in croce. Rassicuro tutti e dico: sono innocente!».
Iconica e molto plastica l’immagine che lo ha immortalato davanti all’ingresso del Tribunale di Cosenza, subito dopo la sentenza di primo grado. Col saio bianco, la barba dello stesso colore e il braccio destro in alto, col dito indice a indicare il cielo e il suo Dio, stava urlando al mondo e ai giornalisti: «Questa è la pagina più dolorosa che abbia potuto scrivere la magistratura di Cosenza. Ne renderanno conto a Dio. Io continuerò a fare il sacerdote missionario con la coscienza a posto».
È, a mio modesto parere, la foto che racchiude tutta questa vicenda. Era il 6 luglio del 2011: i giudici lo avevano appena condannato a 9 anni e 3 mesi di reclusione. Una mazzata. Le prime pagine e le aperture dei tg ripresero il “caso padre Fedele”. L’Appello confermò la condanna. Sembrava la fine. Ma, su richiesta della difesa, la Cassazione annullò la pena, con rinvio degli atti a una nuova sezione della Corte di Appello di Catanzaro. C’erano dei legittimi dubbi sulla reale colpevolezza del frate.
Siamo nell’aprile del 2016: l’Appello sposò le perplessità della Cassazione e assolse padre Fedele con la formula “perché il fatto non sussiste”. Il procuratore generale fece anche lui ricorso in Cassazione, che fu però ritenuto inammissibile. Siamo nel giugno del 2016: il caso è chiuso. Padre Fedele non ha mai violentato quella suora. «Tutto questo – ribadì la difesa – si poteva evitare già dieci anni fa. Solo leggendo le carte si poteva assolvere padre Fedele, risparmiando tempo e fatica». Una specie di caso Tortora, secondo alcuni. A padre Fedele, così come accade al celebre conduttore di “Portobello”, questa storia avrà fatto sicuramente male dentro. Il giorno della definitiva assoluzione disse: «Sono commosso e ubriaco di gioia. Perdono la suora e chi l’ha istigata. A me ora interessa solo riprendere a dire messa. Sono pronto a ripartire, anzi: io non mi sono mai fermato».
Ieri (13 giugno 2024) la notizia della sua morte. Il suo cuore ha deciso di arrestarsi. Fosse stato per lui, avrebbe continuato a sedersi su Corso Mazzini, chiedere aiuto per i suoi poveri e cantare “Maracanà” insieme ai tifosi del Cosenza.
«Padre Fedele – commenta ora il suo storico avvocato difensore, Eugenio Bisceglia – è morto una prima volta quel 23 gennaio di diciannove anni fa. In questi ultimi giorni, quando la fine era ormai vicina, aveva espresso il suo ultimo desiderio, quello di celebrare messa. Non è stato accontentato ed è morto con questo altro dolore. La sua vicenda giudiziaria mi è rimasta dentro e non la dimenticherò mai. È stato triste vederlo ritornare nella sua Oasi da morto». Resterà il ricordo di un uomo col saio, che con passione si è speso ogni giorno per i poveri. Unica pausa, la domenica pomeriggio dopo la messa: c’era una bandiera rossoblù da sventolare in curva.
Il Quotidiano del Sud.
«Padre Fedele morto due volte». Dall’arresto all’assoluzione