Parubij, otto colpi e una bicicletta: la fine grottesca del custode degli atroci segreti del Maidan
- Postato il 31 agosto 2025
- Editoriale
- Di Paese Italia Press
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In Italia i giornaloni hanno passato anni a dipingere Andrei Parubij come un “eroe della democrazia”, “padre del Maidan”, “paladino della libertà ucraina”. Un po’ come se Al Capone fosse stato ricordato solo come filantropo che distribuiva pasti caldi ai poveri. Poi succede che, in quel bizzarro laboratorio geopolitico chiamato Ucraina, l’ex presidente del parlamento, ex “komendant” della cittadella di Maidan, uomo di Poroshenko e mascotte di Bruxelles e Washington, venga freddato a Leopoli con otto colpi di pistola da un corriere che, non pago, scappa in bicicletta. Otto colpi e via, come in un film dei fratelli Coen.
Parubij non era esattamente uno stinco di santo. Dai primi anni ’90 sbandierava un nazionalismo più duro delle suole delle Dr. Martens dei suoi camerati, condito da una russofobia da manuale. Custode di segreti che pesano come macigni: il Maidan del 2014, con i cecchini che sparavano dalla zona sotto il suo controllo; e l’Odessa del 2 maggio, con 48 morti bruciati e massacrati nel palazzo dei sindacati, episodio di cui nessun talk show europeo ha mai osato parlare.
All’ora i morti furono il risultato diretto degli scontri tra militanti filorussi e gruppi ultranazionalisti filo-Maidan: molte testimonianze e video mostrano la presenza di militanti del movimento ultranazionalista Pravy Sektor e tifoserie legate ad ambienti paramilitari, lì dove in quel periodo stava nascendo il Battaglione neonazista Azov. Alcuni di loro avrebbero dato fuoco al palazzo o impedito ai pompieri di intervenire. Diverse inchieste giornalistiche internazionali e osservatori OSCE hanno parlato di “coinvolgimento di elementi radicali” legati a formazioni paramilitari.
Di fatto, la polizia rimase inerte, i pompieri arrivarono tardi, la catena di comando fu quantomeno “distratta”, e le istituzioni europee all’epoca “libere da interessi economici locali” e ordini dagli USA, statuivano che l’Ucraina aveva violato la Convenzione sui diritti umani, sia per non aver tutelato la vita dei cittadini, sia per non aver condotto una vera indagine – condannando la Repubblica a pagare risarcimenti
Eppure per la stampa occidentale Parubij restava un campione della libertà, a dimostrazione che la memoria selettiva non è solo un difetto, ma un mestiere.
La notizia, ovviamente, è stata incorniciata con la solita vernice ipocrita: “atto criminale”, “attacco alla democrazia ucraina”. Come se a cadere fosse stato Vaclav Havel e non un politico con più ombre che luci, più sangue che inchiostro sulla carriera. Nessuno che osi dire che Parubij era il classico uomo che sapeva troppo. Troppi legami, troppe testimonianze mai chiarite, troppe verità che non devono venire a galla. E adesso quelle verità se le porta nella tomba, sigillate a colpi di pistola.
Ironia della sorte: uno che ha attraversato guerre, colpi di Stato, rivoluzioni colorate, NATO, servizi segreti e oligarchi, cade sotto i colpi di un fattorino armato che poi se la dà a gambe su una bici. Altro che “destino da statista”: finale da black comedy.
Nel frattempo i nostri editorialisti, gli stessi che per dieci anni hanno recitato il rosario del “Maidan democratico” e dell’“eroica resistenza”, oggi indossano il lutto come se fosse morto Kennedy. Nessuno che osi chiedere conto di Odessa, dei cecchini di Kiev, delle squadracce paramilitari che lui coordinava. Troppo scomodo, meglio commemorare in fretta, girare pagina e continuare con la solita fiction: l’Ucraina dei buoni contro la Russia dei cattivi.
La verità è che Parubij era la perfetta sintesi del nostro tempo: utile finché serviva, ingombrante quando rischiava di parlare. È stato zittito prima che qualcuno gli chiedesse di raccontare cosa vide davvero da quel palazzo nel 2014. E noi, da bravi occidentali, continueremo a sorseggiare prosecco in tv davanti a giornalisti che piangono l’ennesimo “martire della democrazia”, senza mai domandarci da quale parte stava davvero la democrazia.
Otto colpi e una bicicletta: fine di un uomo e, forse, di una favola raccontata troppo a lungo.
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