Perché il divario tra finanza ed economia reale è diventato così grande

  • Postato il 6 novembre 2025
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  • Di Forbes Italia
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Il Testo unico in materia bancaria n. 385 del 1993, entrato in vigore nel 1994, è stato lo strumento attraverso il quale si è disboscata la foresta pietrificata degli istituti di credito di diritto pubblico, avviando il processo di privatizzazione che ha radicalmente mutato il rapporto tra gli intermediari finanziari e l’economia reale. Le banche sono passate dall’allocazione del risparmio verso le attività economiche e il settore pubblico allargato, in un sistema banco-centrico, alla collocazione di una pluralità di servizi finanziari destinati a imprese e famiglie. In Italia sono serviti oltre 20 anni per giungere a un sistema bancario pienamente in sintonia con quello internazionale.

Come sono cambiate le banche

La privatizzazione degli istituti di credito ha comportato una progressiva concentrazione del sistema finanziario. Dal 2000 al 2025 la rarefazione delle banche commerciali ha interessato circa 150 istituti, mentre il numero degli sportelli si è ridotto di 10.130 unità rispetto al 2015. Oggi il 43% dei comuni italiani è privo di sportelli bancari. Tale concentrazione ha determinato profonde trasformazioni sia nella gestione operativa — grazie all’informatizzazione dei processi produttivi — sia nella tipologia dei servizi offerti alla clientela.

L’espansione dei fondi di investimento mobiliari, del credito al consumo, del risparmio gestito e della vendita di polizze assicurative, unita all’esternalizzazione di importanti funzioni (come la gestione del patrimonio immobiliare, il recupero crediti e i servizi legali), ha conferito alle banche un’identità completamente nuova. Oggi il collocamento di strumenti finanziari e l’erogazione del credito, orientati alla creazione di valore per gli azionisti, rappresentano la diade che caratterizza l’attività bancaria moderna e che ha consentito all’Italia di aderire al Trattato di Maastricht e di accedere all’euro.

L’evoluzione del sistema finanziario occidentale negli ultimi 30 anni trae origine dalla svolta impressa alla politica economica statunitense durante la presidenza Reagan. In particolare, con l’abolizione nel 1999 del Glass-Steagall Act, che separava la banca commerciale da quella d’investimento per evitare il contagio tra i due settori, e con la deregolamentazione dei movimenti internazionali di capitale del 1984.

Una lezione mai imparata

L’esperienza del 1929, con il crollo della banca universale ‘tuttofare’, non ha insegnato nulla: nel 2007-2008 gli Stati Uniti sono precipitati in una nuova crisi bancaria a causa dei mutui subprime, che portarono al fallimento della Lehman Brothers e richiesero un intervento pubblico di 700 miliardi di dollari per evitare il collasso del sistema. Nonostante tali eventi, l’impostazione della politica finanziaria americana si è diffusa in tutte le istituzioni creditizie occidentali, spostando il baricentro dai circuiti produttivi ai mercati finanziari, spesso a scapito dell’economia reale e degli investimenti industriali.

Questo nuovo orientamento ha accentuato in Italia il divario tra la sfera finanziaria e l’economia reale, costituita in larga parte da piccole e medie imprese che avrebbero bisogno dell’attivazione della funzione della banca di prossimità, capace di sostenerne la crescita e l’innovazione. L’inflazione da costi generata dal conflitto russo-ucraino — con l’impennata dei tassi di interesse e dei prezzi energetici — ha reso ancora più evidente, anche fuori dai confini nazionali, la distanza tra le performance del settore finanziario e l’andamento dell’economia reale.

Dal 2022, infatti, si assiste a un contrasto netto: da un lato, la Borsa di Milano è passata dai 24.377 punti del 2021 ai 43.242 del 30 ottobre 2025 (+77%), trainata dallo straordinario rialzo dei titoli bancari e da un monte dividendi di 41 miliardi di euro nel 2025; dall’altro, la crescita del Pil è scesa dal 3,7% del 2022 all’1% del 2024, con una previsione dello 0,5% per quest’anno. Un fenomeno analogo si riscontra anche negli altri paesi dell’Eurozona.

Un problema per le pmi

La scomparsa della funzione della banca di prossimità al servizio delle pmi — imprese con fatturato inferiore a 50 milioni di euro e meno di 250 dipendenti — rischia di rappresentare un vulnus per la crescita del Pil. Le pmi, che generano circa il 50% del valore aggiunto nazionale (e una quota comunque significativa anche negli altri paesi Ue), dovranno sostenere massicci investimenti in innovazione tecnologica, digitalizzazione, sostenibilità e intelligenza artificiale per mantenere competitività e capacità di concorrenza.

Le recenti operazioni di ‘risiko bancario’ — da Mps su Mediobanca a Bper su Banca Popolare di Sondrio, fino alle manovre di Unicredit con Commerzbank e poi con Bpm, sfumata — sembrano più orientate alla creazione di colossi finanziari volti a massimizzare le commissioni del risparmio gestito e del credito al consumo che a colmare il divario tra banche e pmi. Un problema che non si pone per le imprese strutturate, con fatturati superiori a 100 milioni e dotate di cfo.

Perché la tassa sugli extra-profitti non basta

Anche la tassa sugli extra-profitti bancari, perseguita dal governo, accolta senza particolari resistenze da tutti, opposizione compresa, appare più come un mezzo per fare cassa che come uno strumento capace di incidere sulla disarticolazione tra la funzione delle banche e il tessuto economico e sociale. In sostanza, lascia le cose come stanno.

La dissociazione tra la crescita del settore bancario e quella dell’economia reale dovrebbe indurre l’intera classe dirigente a una riflessione profonda, per individuare una risposta politica strutturale al divario tra mondo finanziario e produttivo. La trasformazione delle pmi, il superamento del loro nanismo e gli effetti della guerra dei dazi — che nel primo semestre 2025 hanno comportato un calo del 2,7% dell’export dei distretti industriali — non possono essere affrontati limitandosi a invocare una (pur necessaria) sburocratizzazione delle procedure esg oggi richieste per l’accesso al credito e la vendita dei prodotti nella gdo.

Serve ben altro. Il governo, in un rapporto dialettico con parlamento ed enti intermedi, dovrebbe elaborare un piano organico di sviluppo delle pmi, incardinato nel quadro della politica industriale nazionale, da utilizzare come leva per un’iniziativa forte nei confronti della Commissione europea. La rapida predisposizione di una sorta di Pnrr per le pmi — dotato di adeguati incentivi e strumenti finanziari, vecchi e nuovi, che coinvolgano attivamente le banche — rappresenterebbe un volano decisivo per rafforzare la competitività del settore manifatturiero e affrontare la crescente concorrenza internazionale, in primis quella di Cina e India.

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L’articolo Perché il divario tra finanza ed economia reale è diventato così grande è tratto da Forbes Italia.

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Forbes Italia

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