Piegare l’Iran per spezzare definitivamente ‘l’Asse della resistenza’: così Israele vuole ridisegnare il Medio Oriente
- Postato il 14 giugno 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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L’attacco di Israele all’Iran “non è un’operazione militare, ma una vera guerra combattuta a 1.500 chilometri da casa” e che, secondo il Wall Street Journal, durerà almeno 14 giorni. Una guerra della quale, si potrebbe affermare in maniera superficiale, lo Stato ebraico non aveva affatto bisogno, dato lo sforzo militare nella Striscia di Gaza, la traballante tregua in Libano e i missili lanciati dagli Houthi yemeniti. Ma la prospettiva di Benjamin Netanyahu guarda a un obiettivo che, forse, ai suoi occhi non è poi così distante: lo sgretolamento definitivo di quell’Asse della resistenza, quella Mezzaluna sciita che da 45 anni rappresenta il suo principale antagonista in un Medio Oriente che, con la caduta degli ayatollah, verrebbe totalmente ridisegnato.
L’inizio di questa stagione ha una data precisa: 8 ottobre 2023. Il giorno dopo l’attacco di Hamas al cuore di Israele, lo Stato ebraico ha il pretesto che cercava per mettere in atto piani che, non è un segreto, erano allo studio da anni. Così, la guerra nella Striscia in nome di quel “diritto all’autodifesa” superato ormai decine di migliaia di morti fa si è presto trasformata in uno scontro con tutto quel blocco che rappresenta per Tel Aviv una minaccia esistenziale e che non ha perso tempo a schierarsi al fianco di Hamas nella “guerra di resistenza”.
Dopo circa un anno e mezzo, però, chi sembra prevalere è proprio Israele che, nonostante la perdita di credibilità internazionale e le irritazioni provocate al suo più importante alleato, fondamentale per la sua sicurezza, ossia gli Stati Uniti, complice la sostanziale impunità della quale ha goduto fino a oggi è riuscito a piegare i suoi principali avversari regionali, potendo così puntare al colpo finale: mettere in crisi il regime degli ayatollah.
Gran parte della pressione ha finito per colpire, come normale che sia, Hamas. Il Movimento Islamico di Resistenza ha inflitto un colpo durissimo e senza precedenti nella storia dello Stato ebraico, ma la reazione del governo Netanyahu è stata ancora più feroce. Il successo dell’operazione del 7 ottobre ha sicuramente portato benefici all’immagine del partito armato palestinese tra coloro che subiscono quotidianamente l’occupazione israeliana a Gaza e in Cisgiordania. Sostegno che potrebbe essere addirittura cresciuto a causa dei massacri israeliani nella Striscia. Detto ciò, l’organizzazione ha comunque subito gravissime perdite ai propri vertici, dal leader politico Ismail Haniyeh al suo successore e mente del 7 ottobre, Yahya Sinwar, fino a capi militari del calibro di Mohammed Deif. In una caccia all’uomo senza quartiere che continua e andrà avanti negli anni e alla quale si deve aggiungere anche l’indebolimento economico, logistico e militare connesso a un anno e mezzo di guerra e isolamento all’interno dell’enclave palestinese.
Contemporaneamente, Israele ha combattuto anche su un altro fronte, dall’altra parte del Paese, a Nord, contro le milizie sciite libanesi di Hezbollah. Una guerra durata più di un anno che si è conclusa dopo reciproci lanci di razzi, attacchi, un’invasione di terra da parte di Tel Aviv e un numero di morti, tra cui diversi giornalisti, che ha largamente superato i 3mila, cifra largamente superiore a quella del conflitto del 2006. Solo alla fine di novembre 2024 si è arrivati a un cessate il fuoco tra le parti, dopo 14 mesi di scontri, con Hezbollah che ha registrato importanti perdite militari e umane, basti ricordare il sanguinoso attentato israeliano con la manomissione di device elettronici o l’uccisione dello storico leader, Hassan Nasrallah, e di numerosi suoi vice. A questo si aggiunge un maggiore isolamento interno al Paese che non è in grado, né economicamente né politicamente, di sostenere uno scontro con il potente vicino. Tanto che una limitata nuova invasione di terra nei giorni scorsi si è conclusa senza particolari proteste da parte della leadership di Beirut.
In Siria, poi, il lavoro lo hanno fatto gli altri. Per anni Damasco ha rappresentato il silenzioso vicino che, però, faceva da autostrada e postazione in prima linea nel cuore del Medio Oriente per milizie e membri delle Guardie della Rivoluzione iraniana dirette ai confini con Israele. Salvo qualche sporadico bombardamento su siti considerati sotto il controllo di Hamas o dei Pasdaran, non è stata l’opera di Tel Aviv, almeno sulla carta, a mettere fine al lungo regime degli al-Assad. La vittoriosa marcia su Damasco dell’ex leader di al-Qaeda in Siria, Ahmad al-Sharaa alias Abu Mohammad al-Jolani, e il rovesciamento della dittatura hanno stravolto il ruolo della Siria nello scacchiere mediorientale. Il Paese non è più considerato un nemico dell’Occidente, con l’ex miliziano jihadista che prenderà parte anche alla prossima Assemblea generale dell’Onu a New York, in autunno, ma è anzi ben visto nelle cancellerie occidentali, nonostante gli innumerevoli crimini di guerra dei quali si è macchiata la sua ormai ex organizzazione. Il legame con Teheran non è stato reciso definitivamente, ma è chiaro che la volontà di al-Sharaa di accreditarsi a livello internazionale non gli permettere di sposare a pieno la causa degli ayatollah. A questo si aggiunge poi un’instabilità interna, fisiologica dopo la caduta di un regime durato più di 50 anni, che non permette scelte di campo radicali.
Altra spina nel fianco sul fronte orientale sono state per anni anche le milizie sciite in Iraq, soprattutto quelle più fedeli alla Repubblica Islamica. Ma gli attacchi reciproci tra Israele e Iran avvenuti nel 2024, l’invasione israeliana del Libano e l’avanzata degli uomini di al-Sharaa in Siria hanno dimostrato che queste non sembrano essere disposte a immolarsi per sostenere i propri partner come in passato. È possibile che possano offrire rifugio e coordinamento, o addirittura prendere parte ad attacchi contro obiettivi americani nel Paese, ma un loro reale e fattivo coinvolgimento in un eventuale conflitto con lo Stato ebraico è difficile da ipotizzare. D’altra parte lo hanno precisato anche nelle ultime occasioni: “Salvo indicazioni da Baghdad, non operiamo al di fuori del nostro Paese”.
Ci sono infine gli Houthi yemeniti, il gruppo che più di tutti in questi ultimi mesi ha provato a colpire nel cuore di Israele, con razzi caduti anche a pochi chilometri dall’aeroporto Ben Gurion, dopo aver minacciato le navi in transito nel Golfo di Aden che avessero un minimo legame con lo Stato ebraico. Il problema è che le capacità militari dipendono molto dal sostegno iraniano: senza di esso, la formazione verrebbe sensibilmente indebolita. Di questo Israele è ben cosciente e così mira a portare a casa il bottino di guerra più ambito: piegare la leadership iraniana e sperare in un regime change a Teheran.
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