Pio La Torre, parla il figlio Franco: “C’è un tentativo strisciante di mettere le mani sulla legge che porta il suo nome”

  • Postato il 30 aprile 2025
  • Mafie
  • Di Il Fatto Quotidiano
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È la rivoluzione copernicana nella lotta alla mafia, la norma citata come esempio in tutto il mondo quando si parla di contrasto alla criminalità organizzata. Come tutte le le leggi ha un numero – 646 – e una data – 13 settembre 1982 – ma da sempre è nota semplicemente come Rognoni-La Torre, i cognomi del ministro dell’Interno dell’epoca e del deputato del Partito comunista che per primo aveva messo la sua firma su quella proposta. Giaceva a Montecitorio dal marzo del 1980, ma quando venne approvata, Pio La Torre in Parlamento non c’era: era stato assassinato cinque mesi prima, il 30 aprile del 1982, a Palermo, mentre col fidato autista Rosario Di Salvo stava andando verso la sede del Pci. Le foto pubblicate dai giornali – l’auto crivellata, il cadavere del deputato riverso sul sedile dell’auto, una gamba che penzola dal finestrino ormai in frantumi – diventano la spinta per far approvare quella legge: l’associazione mafiosa diventa un reato e ai boss è possibile sequestrare e confiscare il patrimonio, se accumulato grazie all’utilizzo di risorse illecite. “In realtà quella legge non fu approvata subito dopo l’omicidio di mio padre, bisognerà aspettare settembre con la strage di via Carini e le morti di Carlo Alberto Dalla Chiesa, Emanuela Setti Carraro e Domenico Russo”, ricorda Franco La Torre, il secondogenito del parlamentare comunista.

La Torre, come sta oggi la legge intitolata a suo padre?
Male, perché avrebbe bisogno di una messa a punto. Ma nel vero senso della parola, come quando porti la macchina a fare il tagliando. Bisognerebbe dotarla di qualche strumento che possa colpire il fenomeno nella sua evoluzione.

E invece?
Tolto tutto quello che avviene a contorno – come i reati spia che spariscono o la Corte dei Conti che vede diminuiti i suoi poteri – c’è un tentativo strisciante di metterci le mani. Ma senza dirlo. Dalla scorsa legislatura giacciono in Parlamento alcuni disegni di legge che puntano a inserire la misure di prevenzione dentro al procedimento penale, cancellandone dunque la natura amministrativa.

E quindi neutralizzandone l’efficacia?
Esattamente. Come ci raccontano gli esperti, quando si discute una pena da scontare in carcere di solito il mafioso si fa rappresentare da un avvocato. Quando si parla di misure di prevenzione, invece, gli avvocati sono due o tre. Non si comprende che la finalità di quell’organizzazione non è l’omicidio: quello semmai è un mezzo. Il vero scopo è l’arricchimento illecito. Dunque se tu colpisci l’accumulazione illecita di beni, i mafiosi si arrabbiano molto. E infatti Totò Riina aveva inserito la revisione di tutta la normativa tra i punti del suo papello, cioè le richieste allo Stato per far cessare le stragi.

In Italia vorrebbero modificarla, mentre anche in altri Paesi, come la Francia, la nostra legge sull’uso sociale dei beni confiscati viene presa a modello.
E nel frattempo l’Unione Europea ha approvato la seconda direttiva sulla confisca, che somiglia sempre di più a quella italiana. Superando anche alcune differenze di tipo giuridico culturale.

E allora perché continuano a esserci queste proposte di modifica?
Perché un certo tipo di interessi arriva ancora oggi fino al Parlamento. E dunque si continua a non rafforzare la normativa antimafia. O magari ad affievolirla, sempre senza dire una parola, tanto poi alle commemorazioni antimafia andiamo sempre tutti. E nel frattempo c’è un dibattito pubblico che suggerisce come sia giusto ridimensionare un sistema fuori controllo, perché magistrati come Silvana Saguto hanno distrutto interi patrimoni. Tutto vero, ma allora perché non interveniamo sul serio e dotiamo l’Agenzia per i beni confiscati delle risorse necessarie? Accorciamo i tempi, miglioramo l’efficienza della struttura, il riutilizzo sociale: i patrimoni confiscati sono di ingentissimo valore, possiamo permetterci di investire.

Come è accaduto nel caso di molti omicidi eccellenti, anche su quello di La Torre sono rimasti vari punti oscuri. Dopo 43 anni, lei che idea si è fatto?
L’omicidio di mio padre è il prodotto di una confluenza di interessi di vario genere. Interessi locali, nazionali e internazionali. A me è chiaro il quadro che lo ha determinato. Pio e Rosario Di Salvo non sono stati uccisi per un fatto di specifico, ma si riesce a capire solo se si allarga il quadro. Figure come quelle di Pio La Torre o di Piersanti Mattarella non vengono eliminate solo per semplici questioni di appalti. Cito un solo elemento, perché accertato: dopo l’omicidio di mio padre, Giovanni Falcone chiese al suo capo di potere approfondire la storia dei servizi segreti. Ma lui gli rispose: lascia perdere.

Recentemente la Lega ha fatto polemica su un libro di Veltroni, accusato di spingere l’ideologia gender: raccontava di un bambino a scuola con le scarpe da donna. In realtà quel bambino era suo padre, troppo povero per avere scarpe vere.
Cosa posso dire? L’abbiamo presa a ridere. Evidentemente non leggono neanche i libri che contestano. Tutto per 15 minuti di propaganda sui social.

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Il Fatto Quotidiano

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