Ponte sullo Stretto: un’opera strategica sì, ma per svuotare le casse pubbliche

  • Postato il 6 agosto 2025
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Ebbene sì, è ufficiale: il progetto del Ponte sullo Stretto ha ricevuto l’ennesimo, entusiastico via libera. Festeggiano i promotori, brindano i politici, Salvini si ingozzerà con qualche prodotto tipico e annessa foto da postare, gongolano i costruttori. Finalmente, dopo decenni di sogni a occhi aperti, rendering 3D, slide in PowerPoint (il tutto ovviamente strapagato) e promesse elettorali più e più volte riciclate, il ponte più inutile della storia repubblicana sta per diventare realtà. O forse no. Ma intanto anche a sto giro paghiamo. O meglio lo paga il sud e la Sicilia in particolar modo.

Un’opera “strategica”, ci dicono. E in effetti lo è: strategica per svuotare le casse pubbliche, strategica per deviare fondi che servivano per far uscire il sud da una condizione di marginalità economica. Soldi che non arriveranno ai fatiscenti ospedali e scuole che cadono a pezzi, non arriveranno per potenziare un sistema di trasporto pubblico inesistente con strade che sembrano campi minati.

Ma che ci importa? Vuoi mettere la soddisfazione di avere un ponte lungo 3,3 chilometri che collega due reti ferroviarie che non funzionano? Come montare un rubinetto d’oro su una cisterna bucata. Anzi, su cui continuiamo a fare buchi.

Il ponte non è solo inutile. È dannoso. Non perché non si possa costruire (con abbastanza cemento, si può fare qualunque cosa. Certo a patto di avere l’acqua per impostarlo) ma perché si costruisce al posto di tutto il resto. Le risorse stanziate – miliardi su miliardi – arrivano direttamente da quel fondo teorico chiamato “cose che servirebbero davvero”. Qualche esempio? Come dicevamo non serve neppure troppa fantasia. La sanità meridionale, dove si chiudono reparti ospedalieri e si viaggia centinaia di chilometri per una risonanza magnetica. Le scuole, dove i soffitti crollano più spesso delle promesse elettorali. Le linee ferroviarie, lente, obsolete, spesso a binario unico e non elettrificate. La messa in sicurezza del territorio, tra frane, alluvioni e incendi che ogni anno devastano l’ambiente mentre lo Stato guarda altrove (verso lo Stretto, appunto).

E mentre si continua a tagliare su tutto ciò che ha una reale utilità per le persone, per l’economia, per garantire a migliaia di uomini e donne di passare ad un futuro in questa terra (e la Sicilia in dieci anni ha visto la propria popolazione diminuire di oltre 200mila unità) ecco che il ponte diventa la priorità. Anzi l’unica cosa che conta. Perché alla fine meglio il ponte che non esiste che mettere in sicurezza una frana, tipo quella che qualche anno fa ha tagliato in due la Sicilia. Anche perché foto e conferenze stampa per inaugurare un intervento di messa in sicurezza di un tratto di territorio fa decisamente meno titolo del millesimo annuncio di “stiamo partendo” per la prima pietra del ponte.

La narrazione epica vuole che il ponte serva a unire la Sicilia al resto d’Italia. Qualcuno dovrebbe ricordare che l’Italia, almeno teoricamente, è già unita. Quello che manca, piuttosto, è una Sicilia con treni degni del XXI secolo. Ma no, meglio partire dal ponte. Prima costruiamo la porta, poi penseremo alla casa. Forse.

La Sicilia è percorsa da treni a gasolio che impiegano ore per attraversare 200 chilometri. La Calabria non è messa meglio: strade dissestate, tratte ferroviarie ridotte all’osso, collegamenti pubblici degni del Far West. Ma il ponte risolverà tutto, ci assicurano. Perché mettere un’autostrada sopra due mulattiere è, ovviamente, la soluzione logica.

E il vento, i terremoti, le correnti? Tranquilli, gli esperti (sempre gli stessi da 40 anni) hanno rassicurato tutti: non c’è problema. I terremoti? Il ponte sarà antisismico. Le correnti? Studiate. Il vento? Domato. L’unico ostacolo insormontabile pare essere il buonsenso. Ma su quello non si costruisce. E non ci puoi pagare gli studi di fattibilità.

Nel frattempo, l’area del ponte continua a essere una zona in stato di abbandono, con problemi ambientali, dissesto idrogeologico e un tasso di disoccupazione a doppia cifra. Le risorse che servirebbero per mettere in sicurezza il territorio vengono, ovviamente, dirottate su un’infrastruttura di dubbia utilità e certa monumentalità. Perché si sa, a destra amano i monumenti, soprattutto a se stessi.

In fondo, il Ponte sullo Stretto è perfettamente coerente con l’epoca in cui viviamo: l’era dell’apparenza, del grande annuncio, del fumo negli occhi. Un’opera titanica che non risolve alcun problema reale, ma ne crea molti altri. Un’ottima occasione per fare propaganda, spostare attenzione, distribuire appalti, e magari – chi lo sa – lasciare una bella targa da inaugurare in campagna elettorale.

Nel frattempo, continuano a mancare gli autobus scolastici nei paesi di montagna sempre più spopolati, i reparti di pronto soccorso sono al collasso, e per raggiungere Catania da Palermo in treno serve più tempo che per andare da Roma a Parigi. Ma sì, dai: mettiamo un ponte.

Alla fine, il Ponte sullo Stretto rischia di diventare un capolavoro ingegneristico che collega due deserti. Un’opera mastodontica che unisce due territori svuotati, impoveriti, abbandonati da decenni. Un ponte tra deserti sociali ed economici. Un grande arco sopra il vuoto, degno monumento all’arte tutta italiana di costruire dove non serve, e ignorare dove si muore.

Ma che importa? Sarà bellissimo da fotografare. Perfetta scenografia per film d’azione ambientati in un futuro post apocalittico. Che magari le produzioni potranno anche risparmiare sugli effetti speciali.

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Il Fatto Quotidiano

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