Potenza, muore a 26 anni e gli rubano l’oro dal corpo

  • Postato il 29 luglio 2025
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Potenza, muore a 26 anni e gli rubano l’oro dal corpo

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Al San Carlo di Potenza muore un ragazzo di 26 anni e gli rubano l’oro che aveva addosso. Nessuno ne risponde. Ricevuti 1.500 euro di risarcimento danni. I genitori accusano l’assenza di procedure, ora raccoglieranno testimonianze di casi analoghi


C’è un’azione peggiore che spogliare il corpo di un ragazzo appena deceduto in un incidente stradale dell’oro che porta addosso? La domanda – che è innanzitutto un dilemma etico – viene subito in mente ascoltando la vicenda raccontata da Dino Cotrufo e Mercedes Bruna Clemente, padre e madre del giovane che il 31 luglio 2024, cinque giorni prima del compimento dei 27 anni, perde la vita in un incidente automobilistico sulla statale 655 Bradanica, tra Lavello e San Nicola di Melfi.

Per cercare di rispondere alla domanda, saranno utili alcuni dettagli in cui ci s’imbatte, quasi ci si inciampa, lungo la storia.
La strada, scrivono i genitori, è «terra di nessuno, senza prevenzione e senza controlli», attraversata da mezzi che viaggiano a velocità elevate in totale assenza di strumenti di dissuasione: «Niente autovelox, niente telecamere e quasi mai pattuglie di polizia». È su quell’asfalto che il figlio di Mercedes e Dino, di ritorno da Torino verso la sua città natale, Matera, perde la vita insieme ai due occupanti dell’altra auto coinvolta.

Nei giorni immediatamente successivi, ai genitori si impone di restare a distanza dal corpo del figlio, «poiché a disposizione dell’autorità giudiziaria per le indagini».
Primo dettaglio. La struttura giudiziaria impedisce ai genitori di sfiorare quel corpo, di provare a stabilire l’unico e ultimo contatto possibile: una carezza. I genitori possono piangere e strillare: nulla da fare. È l’iter.

Solo il 6 agosto, sei giorni dopo l’incidente, ottengono il nullaosta per riavvicinarsi a lui. È allora che si accorgono che mancano due oggetti: una collana e un bracciale d’oro. Annotati nell’elenco redatto alla presenza della Polizia durante l’ispezione cadaverica del primo agosto.
Secondo dettaglio. Quei fili d’oro sono «carissimi doni delle amate nonne». La collana regalata a quel nipote, come dicono sempre le nonne, d’oro: maturità con 100, laurea triennale con 110 e lode, magistrale in Ingegneria meccatronica con 110 e lode. L’orgoglio di un’intera generazione tradotto in un girocollo dai riflessi gialli.

Alla camera mortuaria dell’ospedale San Carlo di Potenza, i genitori fanno notare l’assenza. Ricevono una risposta burocratica: i monili sono stati riposti in un sacchetto dopo essere stati infilati «all’interno di un guanto di lattice» insieme agli indumenti. «Come da prassi», assicurano. Ma del guanto, nessuna traccia. Meno che mai delle spiegazioni.
Il 29 agosto, Cotrufo e Clemente («profondamente turbati anche da questa imperdonabile mancanza di rispetto verso nostro figlio, proprio nel momento della sua maggiore vulnerabilità») presentano denuncia al posto di polizia interna dell’ospedale.

Dopo poco più di tre mesi, il tribunale di Potenza archivia il caso per «impossibilità di individuare il responsabile del reato di furto», secondo quanto previsto dagli articoli 624 e 625 del codice penale. Le indagini, riferiscono i genitori, si sono limitate ad ascoltare «coloro che all’interno dell’ospedale, a vario titolo, erano entrati in contatto con il corpo» del ragazzo.
Non acquisito alcun video: nell’area della camera mortuaria non ci sono telecamere. Appurato che non è più possibile trovare il responsabile del gesto, i genitori vogliono però capire come sia possibile che non vi siano misure a tutela di quei beni personali. Possibile che metterli in un guanto e in un sacchetto sia quanto di meglio si possa fare? Non sarebbe meglio affidarli all’agente di polizia di stanza nella struttura sanitaria?

È indignazione civica, potremmo dire: come gestiscono i corpi di chi passa per la camera mortuaria? L’avvocato della coppia propone: chiedete un risarcimento. A Mercedes e Dino ottenere soldi non importa. Per questo accettano con una clausola: se li otteniamo, li diamo in beneficenza.
L’avvocato avanza una richiesta al San Carlo, quantificando il valore reale dei beni (specificando cioè il peso dell’oro), aggiungendovi i danni morali (di per sé incalcolabili ma che poi in sede di richiesta vanno invece calcolati) e le spese legali. Dal San Carlo arriva una telefonata. È la misera controproposta. Alla fine, per iscritto arriverà l’offerta definitiva: metà della richiesta.

Terzo dettaglio: quell’offerta arriva con la violenza di un ceffone. Non per la somma (1.500 euro: tanto per essere precisi), ma perché è un documento inscatolato nella rigidità della burocrazia, fra quelle formule – non serve leggerlo per immaginarlo – che parlano di crediti “pretesi”, di forfait, di pareri e autorizzazioni, fra un “gentile” e un “distinti saluti”.
I genitori accettano. Però l’avvocato alla risposta acclude due-note-due che restituiscono lo schiaffo: evidenzia che manca una motivazione per quella cifra e aggiunge: dato che la somma sarà destinata a un’azione benefica rinuncio al compenso legale. Il motivo è eminentemente pratico: se chiedesse l’onorario, il risarcimento ne sarebbe fagocitato.

I genitori sottolineano: «Nessuna menzione è stata fatta sull’avvio di un’indagine interna da parte dell’Ospedale San Carlo». Né si è accennato all’introduzione di nuove procedure per prevenire il ripetersi di fatti simili. Due richieste che, scrivono, erano per loro «molto più importanti» del denaro.
Non è secondario sapere come abbiano scelto di destinare quella somma: l’intero importo, donato, in parti uguali, alle associazioni Libera ed Emergency. La prima perché promuove la legalità e il rifiuto dell’omertà, «cosa che purtroppo abbiamo vissuto in questa triste vicenda»; la seconda per l’impegno in favore delle vittime civili delle guerre.

Emerge con forza una domanda: «È accettabile – scrivono – che a una persona che ha perso la vita, nel massimo della sua vulnerabilità e anche della sua sacralità legale, si possa accedere liberamente al suo corpo per sottrarre oggetti che il defunto indossava in vita?». Padre e madre s’interrogano anche sul fatto che il reato sia stato trattato come un semplice furto, senza riconoscere che l’azione sia stata compiuta mentre erano ancora in corso indagini giudiziarie.
Il quarto dettaglio è una frase: «Ricordo – sottolineano – che altre mani indegne hanno potuto rovistare in tranquillità, mentre a noi non è stato concesso nemmeno di fare una carezza a nostro figlio».

I genitori si chiedono se la loro sia una storia isolata o, piuttosto, la spia di un fenomeno più ampio. Hanno deciso di raccogliere testimonianze di casi analoghi, invitando chiunque abbia subito situazioni simili a scrivere a: nontacere25@gmail.com.
Esiste dunque un’azione peggiore che spogliare il corpo di un defunto dell’oro che portava addosso? Forse esiste. È farlo mentre quel corpo è custodito dallo Stato, legato a un iter che ne impedisce persino un ultimo saluto ai familiari. Farlo nel silenzio di una procedura che non vede, non approfondisce, non registra. È farlo, e lasciar correre.

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