Prima Guerra Mondiale: la carneficina dell’Isonzo

  • Postato il 15 giugno 2025
  • Di Panorama
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Più che il 24 maggio (1915) – quando «il Piave mormorava» – la guerra mondiale cominciò il 21 giugno con l’offensiva che la storia archivia come la «prima battaglia dell’Isonzo». L’attacco si avviò fiaccamente e si trascinò fino al 7 luglio con risultati controproducenti. Per non conquistare nemmeno un metro, furono sacrificati 15 mila soldati: 3.500 fra morti e dispersi e 11.500 feriti. Altre erano le ambizioni della vigilia.Con pugno di ferro e cuore di ghiaccio, lo Stato Maggiore era guidato da Luigi Cadorna che si meritò il titolo di «generalissimo». Gli ufficiali erano convinti che la guerra si sarebbe risolta in un «amen» al punto da non preoccuparsi del corredo invernale da assegnare a tutti quegli uomini mobilitati per il fronte.  «L’avevo udito io…» si lamentò il ministro delle Finanze Francesco Nitti. «L’ho sentito con queste  mie orecchie…! Se l’Italia fosse entrata in guerra, potevamo stare sicuri che, entro un mese, saremmo stati a Trieste e, da dì, minacciare i centri nevralgici dell’Austria…!».

Velleitario, considerate le forze in campo e la preparazione dei comandati. I soldati erano contadini che, volentieri, avrebbero continuato a spaccarsi la schiena sulle zolle della terra. Non erano guerrieri e il ritrovarsi nelle mani un fucile (che non sapevano usare) non li rassicurava affatto. Si erano sentiti urlare addosso ordini, con una cadenza linguistica che non riconoscevano come propria. E non capivano dove stessero andando perché, quelle zone, non le avevano praticate nemmeno sulla carta geografica. Quanto agli ufficiali, conservavano la mentalità degli impiegati, puntigliosamente aggrappati al grado e al posto. Le Accademie, altro che correggerli, ne esaltavano i difetti. Gli insegnanti sembravano attenti solo alle forme esteriori. L’unico libro che occorreva leggere era il manuale di tattica. «Anche i generali valgono pochissimo». Parola di Giovanni Giolitti che, in uno slancio di onestà intellettuale, fotografò il vertice dell’esercito per quel nulla che era in grado di fare. «Hanno il comando di un’armata: il Brusati che basterebbe per un reggimento; il Frugoni che, delle tante bestialità, abbiamo dovuto richiamare dalla Libia e lo Zuccari che è soltanto un elegantone. Il solo che dia fiducia è il Nava».

Per la verità, nelle prime tre settimane, avrebbero anche potuto sgretolare il fronte perché non c’erano nemici a difenderlo. Gli austriaci sapevano che l’Italia sarebbe entrata in guerra contro di loro ma i soldati erano impegnati sul fronte russo, tanto che la difesa dei confini meridionali venne affidata a poche migliaia di «territoriali» che sarebbe come dire «vigili urbani». L’esercito tricolore non seppe approfittare di circostanze enormemente favorevoli. La «Prima Armata» entrò in azione rapidamente  per fermarsi subito. Dopo qualche fucilata i «territoriali» austriaci si ritirarono sulle posizioni che avevano già individuato e gli italiani li inseguirono ma badando di rimanere a discreta distanza. Quando il generale Antonio Cantore cominciò ad immaginare un ritmo più spedito all’azione, il 27 maggio, venne sostituito. Il «V Corpo d’Armata», alle dipendenze del generale Florenzio Aliprindi, non abbozzò nemmeno un barlume di azione. Il comandante era un ufficiale coscienzioso, convinto che la Patria andasse servita evadendo gli scartafacci della burocrazia militare. Il segno di un centimetro della matita, sul documento, indicava che il testo non lo interessava; di mezzo centimetro, che intendeva rileggerlo; il punto significava che se ne doveva parlare. I primi movimenti stazionarono in una punteggiatura minuziosa su pezzi di carta. Il 26 giugno venne sostituito. Di fatto, la sua campagna militare non iniziò nemmeno. Quando lo richiamarono era ancora indaffarato nel censire i protocolli di sua competenza, per ordinarli secondo il titolo d’importanza.

La «IV Armata» aveva avuto compiti grandiosi. Troppo. Doveva «scattare oltre il confine, scendere in val Pusterìa, aggirare il saliente Trentino e concorrere allo sfondamento delle difese avversarie, a Villach». Il generale Luigi Nava – l’unico al quale Giolitti sarebbe stato disposto ad affidare qualche responsabilità – si trovò per le mani un’occasione d’oro. Davanti, quel velo di «territoriali» destinato a frantumarsi al primo assalto. Ma l’ufficiale non si sentì a suo agio e, mostrandosi più esitante che audace, passò il tempo a scrivere chilometrici messaggi per esaminare un ventaglio d’ipotesi compresa quella che il nemico potesse apparire con forze superiori. Dunque, rivolgendosi ai comandanti di corpo, illustrò le sue strategie e chiese consigli alle «Loro Eccellenze» che, nel testo, vennero indicate con le abbreviazioni LL.EE. Perciò «vorranno prontamente meditare sulle considerazioni in merito e sottopormi, a ragion veduta, gli atti di prima offesa che, a loro giudizio, si possano meglio compiere a vantaggio delle ulteriori nostre operazioni e senza incorrere in più gravi rischi». Il blitz, in quel settore, si risolse con l’occupazione di Cortina d’Ampezzo, già evacuata dagli austriaci da una settimana.

Accanto, il generale Clemente Lequio si trovò la strada sbarrata dai forti di Malborghetto e di Predil. Occorreva bombardarli ma non aveva nemmeno un pezzo d’artiglieria. Ai messaggi per ottenere qualche cannone risposero tempestivamente per iscritto assicurando di provvedere ma non si curarono di dare seguito agli impegni. Con il risultato che il reparto fu in grado di sparare i primi colpi il 12 giugno, fuori tempo massimo per sfruttare il fattore sorpresa. L’occasione favorevole toccò anche al generale Pietro Frugoni che, all’offensiva, ci credeva al punto d’impegnarsi per darle corpo. Scese nella valle dell’Isonzo, occupò la piana di Caporetto ma lì – inspiegabilmente – si fermò, spaventato dalla sua stessa audacia. Quelle prime settimane di guerra alla velocità della formica diedero il tempo ai generali austriaci – Franz Conrad e Svetozar Boroevic von Bojna – di approntare delle difese efficaci capaci di reggere gli assalti dei reparti tricolore. L’idea di marciare trionfalmente nel cuore dell’impero austro-ungarico poteva essere archiviata. E quando la guerra cominciò per davvero, fu chiaro che i cadaveri avrebbero lastricato quella terra. Nella prima battaglia, i reparti avrebbero dovuto muoversi, articolando gli assalti, in modo da puntare sulle alture del Podgora, sul monte Kuk e verso il Carso. La stessa relazione ufficiale – giustificando il risultato negativo – convenne che «gli attacchi si svolsero indipendenti e ciascuno con carattere proprio». Senza un coordinamento adeguato e con organizzazione approssimativa. Di fatto, i reparti vennero lanciati allo sbaraglio.

Robert Skorpil che, sui costoni del Podgora, guidava un contingente di Vienna la raccontò così. «Si avvicinarono alle trincee ma, contro di loro, si aprì un fuoco infernale che ne determinò la rapida ritirata». Se le protezioni a difesa non erano state nemmeno intaccate, aveva senso continuare l’azione? Gli stessi austriaci si meravigliarono che altri soldati fossero mandati all’assalto. «Un simile procedere» sempre dal diario di Skorpil «fu spaventosamente punito. A 30 passi, gli attaccanti ricevettero il fuoco del difensore che fu così micidiale che la fronte d’attacco fu del tutto distrutta». L’attacco sul Kuk fu descritto anche da Ugo Ojetti che, pur da ottica diversa, utilizzò analoghe immagini. «Ci gettammo a testa bassa, per i ripidi pendii scoperti. Quattro brigate tentarono di sfondare in un triangolo di poco più di un chilometro di base. Immaginarsi il carnaio davanti ai reticolati pressoché intatti». Paradossalmente l’azione verso il Carso (a cui era attribuita scarsa importanza) stava ottenendo risultati interessanti. Su quel fronte, considerato secondario, l’Armata del duca d’Aosta Emanuele Fliberto stava provocando la rottura del dispositivo avversario. Ma i reparti impegnati nel combattimento non ce la facevano più. Occorrevano rinforzi che non arrivarono. Gli austriaci ebbero il tempo di riorganizzarsi e, quando la «27esima divisione» fu nelle condizioni di intervenire, il momento favorevole se n’era andato.

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Panorama

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