Pronto soccorso allo stremo e fa pure litigare università e medici
- Postato il 27 giugno 2025
- Di Panorama
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La scintilla, su un argomento che in Italia negli ultimi anni accende gli animi come pochi altri, è stata la diffusione – in occasione del Graduation Day promosso da ALTEMS (Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari dell’Università Cattolica)- dei dati sul numero di accessi, di medici e di presidi di Pronto soccorso presenti sul territorio nazionale. I numeri sembrano suggerire un miglioramento: tra il 2011 e il 2023 il numero di medici dedicati al servizio di emergenza-urgenza è cresciuto in media da 3,8 a 6,9 per ogni pronto soccorso. Tuttavia, nello stesso periodo, il numero totale delle strutture di emergenza è sceso da 808 a 693. Una prima, semplice lettura potrebbe suggerire un sistema più efficiente: meno reparti di Pronto Soccorso, ma più medici per ognuno, quindi più ottimizzazione con un calo complessivo degli accessi (da 363 ogni mille abitanti nel 2011 a 311 nel 2023) e una riduzione dei ricoveri successivi (dal 14,9% al 13%). Ma la realtà, secondo chi lavora quotidianamente nei reparti di emergenza, è molto più complessa — e preoccupante.
A strettissimo giro, dopo la diffusione dei dati, si è fatta sentire l’autorevole voce di SIMEU (Società italiana medicina di emergenza urgenza), cioè la società scientifica che in tutta Italia riunisce gli specialisti che lavorano nei Pronto Soccorso, che ha diffuso una nota molto esaustiva con una disamina del problema. Secondo il presidente Alessandro Riccardi, il past president Fabio De Iaco e tutta la squadra di emergentisti, i dati di ALTEMS nascondono parecchie criticità. Andiamo a esaminarle: innanzitutto l’aumento apparente del personale medico specializzato non riflette necessariamente un reale potenziamento. In molti casi, si tratta semplicemente di una riclassificazione amministrativa di medici già in servizio: in passato inquadrati in discipline come medicina interna o chirurgia, oggi formalmente assegnati alla Medicina d’Emergenza-Urgenza. Di fatto, cambia la voce sul contratto, ma non la disponibilità reale delle risorse sul campo.Non solo. Il sistema di rilevamento dati è frammentato e disomogeneo: non esiste, ad oggi, un modello unico per determinare il reale fabbisogno di personale nei pronto soccorso italiani. Ogni regione – e talvolta ogni azienda sanitaria – adotta logiche diverse di gestione. A complicare il tutto, l’assenza di dati su attività come OBI (Osservazione Breve Intensiva), degenze di medicina d’urgenza e gestione di letti semi-intensivi, che impegnano comunque i medici del pronto soccorso. In altre parole: i pazienti presenti nei reparti di emergenza non vanno solo contati, ma “pesati”
Specializzazione in crescita? Sì, ma non abbastanza
Un altro punto critico sollevato dagli esperti di SIMEU riguarda l’interpretazione dei dati sui medici specialisti. La Scuola di Specializzazione in Medicina d’Emergenza-Urgenza è nata solo nel 2009 e ha sfornato i primi medici nel 2014. I numeri precedenti a quella data riguardano medici privi della formazione specifica prevista oggi. E anche negli anni successivi, il numero di borse di specializzazione bandite è stato limitato, rendendo poco rappresentativo il dato che lega “inquadramento MEU” a reale formazione specialistica. Tra il 2018 e il 2023, la categoria ha perso circa il 9% dei professionisti: un calo netto, e allarmante, che coincide con le proiezioni più pessimistiche formulate da SIMEU. Un’emorragia di risorse umane che mette a rischio l’intero sistema.
I numeri degli accessi non raccontano tutto. “Serve coraggio della verità”.
Sempre dalla replica di SIMEU, si capisce molto bene come il solo fatto di ridurre l’analisi della crisi dei pronto soccorso al semplice conteggio degli accessi sia fuorviante. L’intensità e la complessità delle cure richieste sono aumentate in modo sensibile. Non basta sapere quante persone entrano in pronto soccorso: bisogna capire quale assistenza richiedono, quanto a lungo restano in reparto e quali risorse sono necessarie per gestirle. Fenomeni come il “boarding” – cioè i pazienti costretti a restare in pronto soccorso in attesa di un posto letto – e i “ricoveri negati” – ovvero permanenze prolungate che, nei fatti, equivalgono a degenze ospedaliere – non sono conteggiati correttamente nei dati ufficiali. Eppure, rappresentano fino al 40% dell’attività reale di alcuni reparti.
«Quando ci limitiamo a contare solo il numero degli accessi al Pronto Soccorso, raccontiamo una realtà piatta, bidimensionale, che non tiene conto della complessità profonda di quello che realmente facciamo ogni giorno» spiega Fabio De Iaco, primario di Pronto Soccorso dell’ospedale Maria Vittoria di Torino e past-president SIMEU. «Un accesso può durare sei ore, come nel caso di una colica renale che trattiamo e dimettiamo, oppure può significare tre giorni di gestione intensiva, con terapie avanzate, monitoraggi continui, magari perfino con supporto vaso-pressorio. Eppure quei due accessi vengono contati allo stesso modo. È evidente che c’è un problema nella rappresentazione del nostro lavoro. Il Pronto Soccorso oggi non è più solo un luogo di smistamento delle urgenze: è un reparto a tutti gli effetti, dove si fa diagnosi, si cura e spesso si sostituisce un intero ricovero. Gestiamo pneumotoraci con drenaggi toracici, pazienti in ventilazione non invasiva, rianimazioni, terapie complesse. Ma tutto questo non viene tracciato. Quanti pazienti finiscono sotto ventilazione ogni anno in Italia nei nostri Pronto Soccorso? Quante rianimazioni cardiopolmonari facciamo? Non lo sappiamo, perché questi dati non vengono registrati o non vengono recuperati. E quando vengono registrati, sono affidati a operatori che, mentre curano, dovrebbero anche codificare manualmente ogni intervento secondo nomenclatori nazionali o classificazioni sanitarie, un’impresa praticamente impossibile». Così, mentre possiamo sapere con estrema precisione quanti emocromi si fanno ogni anno (perché è tutto informatizzato), non sappiamo nulla di attività cliniche ben più complesse e impegnative. Questo porta a un cortocircuito nella valutazione del lavoro e, soprattutto, nel calcolo del fabbisogno di personale e risorse. Perché se non si misura quello che realmente si fa in PS, non si potrà mai programmare in modo corretto. «Raccontare questa verità non è un atto di pessimismo, è un atto di onestà» continua De Iaco «Io stesso vado ripetendo ovunque che la buona sanità esiste, che ci sono migliaia di storie positive nei nostri ospedali. Ma raccontare che tutto va bene, quando invece ci sono falle evidenti nel sistema, non serve a nessuno. Solo chi ha il coraggio di dire la verità può davvero correggerla. Per questo, quando esce una narrazione come quella di certi studi che dicono che siamo più medici e vediamo meno pazienti, mi tocca dire chiaramente che è non è così. Perché i numeri vanno letti, interpretati, e non usati per coprire una realtà che invece merita attenzione, rispetto e – soprattutto – soluzioni concrete.»
Una disciplina indispensabile, ancora in cerca di riconoscimento
Inoltre, c’è da dire anche che la Medicina d’Emergenza-Urgenza continua a vivere una fase progettuale mai veramente conclusa: dalla nascita dei Dipartimenti nel 1992 alla Scuola di Specializzazione nel 2009, fino all’attesa – ancora in corso – di una legge nazionale che ne definisca con chiarezza ruolo e competenze. Di fronte a un quadro così complesso e confuso, gli esperti di SIMEU ribadiscono una richiesta chiara: serve un’analisi seria, dettagliata e unificata del fabbisogno dei pronto soccorso italiani. Un lavoro che non può prescindere dal coinvolgimento del Ministero della Salute, delle Regioni e soprattutto delle Società Scientifiche, che da anni raccolgono dati reali e offrono strumenti per leggere con onestà la situazione. Solo così sarà possibile affrontare la crisi, non con illusioni statistiche, ma con interventi concreti, partendo da un principio tanto semplice quanto dimenticato: l’emergenza-urgenza non può aspettare. E tantomeno possono farlo i tanti pazienti che ogni giorno affollano i reparti di Pronto Soccorso.