Quando denunciare conviene. I rischi di un’integrità guidata dal profitto
- Postato il 18 dicembre 2025
- Di Il Foglio
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Quando denunciare conviene. I rischi di un’integrità guidata dal profitto
La vicenda che ha coinvolto il Dana-Farber Cancer Institute, conclusa con un accordo da 15 milioni di dollari per chiudere accuse di frode legate a dati manipolati in richieste di finanziamento pubblico, è una notizia importante per chi si occupa di integrità della ricerca. Importante perché mostra che segnalazioni fondate, tecnicamente competenti e persistenti possono arrivare fino in fondo, anche quando toccano istituzioni di primissimo piano. Importante anche perché conferma che la manipolazione dei dati non è un problema astratto o marginale, ma una pratica che può avere conseguenze legali concrete quando si intreccia con l’uso di fondi pubblici.
C’è però un secondo livello che merita attenzione. Il sistema statunitense di whistleblowing, in particolare quello che opera attraverso il False Claims Act, prevede un incentivo economico diretto per chi contribuisce al recupero di denaro pubblico ottenuto in modo fraudolento. In casi come questo, in cui peraltro è stato coinvolto come denunciante un ricercatore che ha già dato prova della sua serietà nell’individuare problemi e potenziali frodi, parliamo di compensi milionari – nell’occasione specifica 2,625 milioni di dollari. La logica è esplicita: lo Stato esternalizza parte della funzione di controllo, premiando chi scopre frodi che altrimenti resterebbero sommerse. È un meccanismo che ha prodotto risultati concreti, e negarlo sarebbe scorretto.
Il problema nasce quando un incentivo così forte comincia a orientare sistematicamente i comportamenti. Se l’integrità diventa una caccia al tesoro così proficua, il rischio non è astratto. Si crea una selezione naturale dei bersagli: grandi istituzioni, grandi grant, grandi numeri. Non necessariamente perché siano i luoghi in cui l’abuso è più frequente o più grave dal punto di vista scientifico, ma perché sono quelli che promettono il ritorno economico maggiore. In questa cornice, l’attenzione tende a spostarsi dal danno epistemico prodotto da dati falsi o manipolati al valore monetario della controversia.
Questo spostamento ha conseguenze culturali profonde. L’integrità della ricerca nasce come esigenza interna alla scienza: riguarda l’affidabilità dei risultati, la riproducibilità, la possibilità di costruire conoscenza cumulativa senza fondamenta fragili. Quando entra stabilmente in un sistema premiale esterno, ancorato al recupero di fondi e non alla correzione del record scientifico, cambia funzione. Rischia di diventare un’attività estrattiva, in cui il dato problematico è soprattutto un appiglio giuridico per vincere cause ad alto valore economico.
C’è poi un altro effetto collaterale. Un ecosistema popolato da “cacciatori di integrità per fini di lucro” può produrre un clima di sospetto generalizzato, in cui ogni errore, ogni imprecisione, ogni zona grigia viene letta innanzitutto come potenziale frode perseguibile, non come fallimento scientifico da analizzare. La distinzione cruciale tra errore, negligenza e manipolazione intenzionale rischia di appiattirsi sotto il peso di un contenzioso che ha bisogno di colpevoli netti e di cifre elevate per essere sostenibile.
Questo quadro diventa ancora più problematico se lo si colloca nel clima politico e culturale che si sta delineando negli Stati Uniti, quello che alcuni ambienti riconducibili a Trump e Kennedy hanno iniziato a presentare come una “golden science”. Non si tratta di una scienza più rigorosa o più libera, ma di una scienza selezionata per compatibilità ideologica: valorizzata quando conferma una narrativa, delegittimata quando la contraddice. In un contesto simile, gli strumenti dell’integrità possono essere piegati a una funzione diversa da quella per cui sono nati.
Il rischio qui è che l’arma dell’integrità venga usata non per correggere la scienza scorretta, ma per cancellare la scienza scomoda. Se esistono forti incentivi economici e politici a colpire determinati filoni di ricerca, determinati gruppi o determinate istituzioni, l’attenzione selettiva può trasformarsi in pressione mirata. Non serve dimostrare che un intero corpo di risultati sia falso; è sufficiente isolare un punto vulnerabile, un errore formale, una figura ambigua, e trasformarlo in un caso esemplare. In questo modo, l’integrità smette di essere una tutela e diventa uno strumento di disciplina della politica.
Ovviamente, nulla di tutto questo assolve chi falsifica dati o li presenta in modo fuorviante per ottenere finanziamenti. Casi come quello del Dana-Farber mostrano quanto sia necessario che qualcuno guardi davvero dentro i numeri, le immagini, le figure supplementari, le richieste di finanziamento. Ma proprio per questo il tema non può essere affidato ai cacciatori di taglie.
La questione vera è quale architettura istituzionale vogliamo per difendere la qualità della scienza senza renderla ostaggio di incentivi perversi o di agende ideologiche.
Un sistema sano dovrebbe rendere la segnalazione delle manipolazioni una funzione ordinaria e strutturata, affidata a controlli indipendenti, competenti e continui, non a iniziative individuali guidate anche da una prospettiva di guadagno personale o di opportunità politica. Dovrebbe premiare la correzione tempestiva del record scientifico almeno quanto il recupero ex post di fondi mal spesi. Dovrebbe ridurre lo spazio in cui frodi e scorrettezze possono proliferare indisturbate fino a diventare abbastanza grandi da giustificare azioni legali spettacolari. Soprattutto, dovrebbe abbattere gli incentivi alla manipolazione dei dati, a partire dall’abbandono dell’eccesso bibliometrico nella valutazione della ricerca.
Il paradosso è che il successo di denunce, quali quella di cui qui si discute, segnala allo stesso tempo un funzionamento e un fallimento del sistema. Funziona perché qualcuno riesce a fermare pratiche scorrette. Fallisce perché ci si arriva tardi, quando il danno scientifico è già stato prodotto e l’unico linguaggio rimasto è quello dei tribunali e dei risarcimenti. L’integrità della ricerca, se vuole restare tale, non può essere affidata né alla caccia grossa né alla selezione ideologica. Deve essere una responsabilità diffusa, continua, tecnicamente fondata, integrata nel modo in cui la scienza viene prodotta, valutata e finanziata.
Solo così si evita che la difesa della scienza venga in realtà rediretta alla sua neutralizzazione.
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