Quando è l’uomo bianco la vittima del razzismo
- Postato il 4 ottobre 2025
- Di Panorama
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Si parla tanto, in questi anni, di «razzismo sistemico». Eppure, a ben vedere, una discriminazione taciuta ma in fortissima espansione nelle nostre società è quella che gli antirazzisti di professione negano di più: il razzismo anti bianco. Un fenomeno subdolo, strisciante, ma che avanza ovunque. A cominciare dalla Francia, da un paio di secoli laboratorio politico d’Europa, nel bene e nel male.
Il razzismo anti bianco si manifesta a ogni livello. Nella comunicazione pubblica: esemplare, in questo senso, la recente locandina del Comune di Parigi contro i venditori abusivi, nella realtà quasi tutti africani, ma nel manifesto rappresentati come biondi molesti. O nell’assegnazione dei fondi pubblici: qualche anno fa, il sociologo Dominique Lorrain confrontò gli investimenti dello Stato in una banlieue e in un borgo rurale povero ma bianco, scoprendo che lo Stato aveva investito 12.450 euro per abitante nel quartiere immigrato contro gli 11,80 euro per abitante nel villaggio contadino. O nello sport: qualche anno fa il giornalista sportivo Pierre Ménès denunciò il razzismo di cui era stato vittima in nazionale l’ex milanista Yoann Gourcuff. L’ex stella Emmanuel Petit aveva rincarato la dose: «Nel mondo del calcio amatoriale ci sono molti bianchi vittima di razzismo». I campetti di periferia e gli spogliatoi delle squadre giovanili, in molte zone delle Francia, sono delle banlieue in miniatura, dove l’esclusione e la violenza la fanno da padrone (si veda il libro Racaille football club, di Daniel Riolo, edizioni Hugo Sport).
Oggi la realtà che vivono migliaia dei giovani francesi è quella della convivenza forzata accanto a coetanei che li odiano, li insultano, li deridono, li picchiano, li derubano, talvolta li uccidono, come accaduto a Crépol, paesino non lontano da Lione, dove a fine 2023 un’orda venuta da una vicina periferia per «accoltellare dei bianchi» lasciò sul terreno un sedicenne di nome Thomas Perotto. Le testimonianze su questo odio reso invisibile sono state raccolte da François Bousquet nel suo Le racisme antiblanc: L’enquête interdite (La Nouvelle Librairie). L’intellettuale francese ha ascoltato una cinquantina di racconti, punta dell’iceberg di una violenza quotidiana. Le testimonianze raccontano di percorsi scolastici che assomigliano a un calvario: «I problemi», racconta Benoît, «sorgevano prima e dopo le lezioni, soprattutto durante il tragitto con l’autobus. Lì, venivamo chiamati “gwer”, una parola di origine turca che significa “miscredente” o “infedele”. Dovevamo sopportare il “formaggio bianco”, sempre preceduto dall’inevitabile “sporco”. Tutti i bianchi dovevano sorbirselo, prima o poi».
Cloé era l’unica studentessa bianca della sua classe. E l’ha pagata cara. «Durante le lezioni di storia, sono diventata il bersaglio di commenti che accusavano i bianchi dei peccati dell’umanità: colonialismo, schiavitù, razzismo. Ero colpevole semplicemente per la mia esistenza. Gli insulti si sono rapidamente trasformati in atti più gravi: estorsione, furto dei miei effetti personali, compreso il mio telefono. Poi arrivarono le percosse, inflitte dai ragazzi. Le ragazze, da parte loro, mi ignoravano completamente, come se non esistessi. Per due anni, la mia vita quotidiana fu scandita da spintoni, tirate di capelli e divieti impliciti: non potevo sedermi sui gradini del cortile senza rischiare di essere presa a calci». «Si prendevano quel poco che avevo», ricorda Richard, «la mia paghetta, appena qualche franco per comprare bibite o figurine. Sono stato derubato per due anni, sempre dalle stesse persone, che arrivavano al punto di costringermi a sedermi in fondo alla classe per facilitare il loro lavoro. La violenza fisica è iniziata in seconda media. Sono stato schiaffeggiato, umiliato. I teppisti mi hanno persino costretto a spogliarmi in cortile, lasciandomi in mutande per fare la figura dello scemo davanti a tutti».
In pochi casi, i più fortunati, un evento improvviso può attenuare le aggressioni. È quanto successo a Remi, un ragazzo discriminato, che ha incontrato il rispetto dei suoi coetanei musulmani quando ha rivelato di osservare il digiuno quaresimale. Ma sarebbe troppo ottimistico costruire sul caso di Remi un metodo anti bullismo. «Questa scena», spiega Bousquet a Panorama, «si è verificata tre decenni fa. Dubito che possa accadere di nuovo oggi, dato che l’ascesa del rigorismo islamico ha cambiato la situazione. Diversi testimoni mi hanno confidato che il loro cristianesimo, che un tempo poteva essere stato protettivo, non li aveva preservati dalle pressioni islamiste. Tuttavia, questo episodio mette in luce una costante che ho ripetutamente riscontrato nel corso della mia ricerca: la salvezza in contesti così ostili richiede spesso la consapevolezza della propria identità».
Ma quali sono le dimensioni effettive del fenomeno? Difficile trovare numeri ufficiali, ma qualcosa trapela. Nell’ottobre del 2022, un sondaggio Csa per Cnews rivelava che secondo l’80 per cento degli intervistati esiste in Francia un razzismo antibianco, quanto meno in alcune comunità. Nel 2016, l’Institut national d’études démographiques (Ined) rivelò, con un linguaggio felpato reso necessario dal veto alle statistiche etniche posto per legge, che il 15 per cento della «popolazione maggioritaria non pauperizzata» aveva subìto atti di razzismo. Percentuale che, fra la «popolazione maggioritaria pauperizzata», saliva al 26 per cento: un francese povero su quattro.
Un dato che emerge dalle storie raccolte da Bousquet è quello della solitudine. I ragazzi di origine straniera vivono costantemente la dimensione del clan: familiare, amicale, delinquenziale, etnico, religioso. I bianchi sono isolati, non compresi da genitori, professori, polizia. «Esiste chiaramente», spiega Bousquet, «un profondo divario generazionale. La svolta decisiva in Francia è stata l’introduzione del ricongiungimento familiare nel 1976. Ci sono voluti dieci anni per produrre i primi effetti, quando i figli nati da questa politica hanno iniziato a frequentare le scuole medie e superiori. Le classi di età precedenti non avevano sperimentato nulla di simile. Chiusa nel suo edonismo da boomer, questa generazione fatica a comprendere cosa significhi per i giovani bianchi l’esperienza quotidiana di essere una minoranza in contesti educativi o residenziali dove si trovano in una posizione di inferiorità».
La quotidianità di questi giovani è salmodiata di insulti come «sale blanc» (sporco bianco), «face de craie» (faccia di gesso), «fromage blanc» (formaggio bianco) «halouf» (maiale), «gwer» (miscredente), «babtou» (dall’arabo «toubab», bianco, con le sillabe invertite come si usa fare nel verlan, lo slang delle periferie) «bolo» (forse «lobotomizzati» in verlan, oppure una crasi tra «bourgeois» e «lopette», finocchio). Qualche anno fa, all’inizio della scuola, un collettivo identitario si prese la briga di fare un giro sull’allora Twitter per leggere un po’ di commenti di «nuovi francesi»: «Bianchi dappertutto, divento pazzo!», si lamentava Beur a Kerhla. «Sporco bianco, vai a mangiare maiale e resta nel tuo quartiere, qui nessuno ti vuole», rincarava la dose Meliaa. «Non ho proprio voglia di rivedere tutti questi bianchi», sbuffava Halalisatorex.
Di tutto ciò, la buona borghesia parigina finge di non sapere nulla. Salvo improvvise epifanie. L’8 marzo 2005, per esempio, durante una manifestazione studentesca, vari allievi furono pestati e derubati da un migliaio di ragazzi calati da Seine-Saint-Denis per compiere razzie. Essendo stati colpiti i figli dell’élite progressista, fu Le Monde ad alzare il sipario. Il quotidiano intervistò vari ragazzi delle banlieue pronti a confessare candidamente le motivazioni razziste delle aggressioni. «Se sono andato in piazza era per prendere telefonini e picchiare gente. Lì c’erano dei piccoli francesi con teste da vittima», diceva il franco-tunisino Heikel, 18 anni. «È come se avessero scritto “vieni a prendere la mia roba” sulla fronte», spiegava Patty. Abdel 18 anni, aggiungeva un dettaglio interessante, spiegando che «neri e arabi fanno più figli, dunque tu non puoi sapere se colui che sta in piazza avrà un fratello più grande». Cosa che non accade con i ragazzi bianchi, figli unici, orfani di qualsiasi clan, lasciati soli da un mondo di adulti incantati dalle ideologie progressiste.