Quando la scienza diventa marketing

  • Postato il 11 novembre 2025
  • Di Il Foglio
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Quando la scienza diventa marketing

Una bella inchiesta del WSJ ci racconta come una startup di San Francisco, finanziata da Sam Altman, cofondatore di OpenAI, e da Brian Armstrong, CEO di Coinbase, sta lavorando in segreto a un progetto che, se realizzato, rappresenterebbe un salto senza precedenti nella biotecnologia riproduttiva: la nascita di un bambino geneticamente modificato per eliminare una malattia ereditaria. L’azienda, chiamata Preventive, è stata fondata nel 2024 e ha raccolto circa 30 milioni di dollari con l’obiettivo dichiarato di portare l’editing genetico dal laboratorio alla clinica prenatale. Secondo le informazioni trapelate, starebbe valutando la possibilità di operare in paesi con normative più permissive, come gli Emirati Arabi Uniti, poiché negli Stati Uniti la legge vieta esplicitamente l’uso di embrioni geneticamente modificati a fini riproduttivi.

Il progetto è presentato dai suoi promotori come un atto di medicina preventiva radicale: eliminare, prima della nascita, mutazioni che causano malattie ereditarie gravi. Ma l’ambizione reale è più vasta e si inserisce in una corsa internazionale in cui altre aziende — come Orchid, Herasight, Nucleus o Bootstrap Bio — cercano di costruire un mercato della riproduzione “ottimizzata”, combinando tecniche di fecondazione in vitro, editing genetico e analisi poligeniche predittive. Il linguaggio con cui queste società si descrivono — “genetic optimization software”, “Gattaca stack”, “neo-evolution” — rivela una trasposizione diretta dei modelli cognitivi della Silicon Valley: la vita come codice, l’embrione come piattaforma migliorabile, l’evoluzione come un processo che può essere accelerato con algoritmi.

In questa visione la distinzione tra prevenzione e selezione si dissolve. Gli strumenti impiegati non sono più solo terapeutici ma predittivi, basati su correlazioni statistiche che trasformano il genoma in una matrice di probabilità e il nascituro in un insieme di tratti valutabili. Il punto più fragile di questa costruzione — e il meno discusso — è quello scientifico. L’intera industria della “riproduzione potenziata” poggia su una tecnologia che non ha ancora basi predittive solide: gli score poligenici. Questi punteggi, derivati da studi di associazione genomica (GWAS) condotti su centinaia di migliaia di individui, stimano la probabilità che una persona sviluppi una malattia o possegga un certo tratto (come l’altezza o il quoziente intellettivo) in base alla somma di migliaia di varianti genetiche. Tuttavia, la loro capacità di previsione è debolissima a livello individuale. Gli effetti di ciascuna variante sono minimi, e il loro contributo complessivo dipende da fattori ambientali, epigenetici e casuali che i modelli statistici non riescono a catturare.

A ciò si aggiunge un problema metodologico cruciale: questi modelli sono costruiti su popolazioni di riferimento omogenee — in larga parte di origine europea — e perdono potere predittivo quando applicati a genomi con diversa ascendenza. Ma l’errore più grave è concettuale: trasferire uno strumento statistico pensato per grandi coorti all’interno di una decisione familiare su pochi embrioni. Nella selezione tra cinque o dieci embrioni della stessa coppia, la variazione genetica disponibile è minima, e le differenze di punteggio per intelligenza, rischio cardiovascolare o predisposizione psichiatrica sono dell’ordine di una fluttuazione casuale. Nonostante questo, alcune startup propongono ai genitori grafici colorati che mostrano quale embrione avrà un QI stimato più alto di nove punti o un rischio di schizofrenia ridotto dell’uno per cento, spacciando come previsione ciò che è solo rumore statistico.

È qui che la narrazione tecnologica diventa ideologia. L’idea che sia possibile “scegliere” il figlio migliore si fonda sulla stessa fede nel calcolo che ha già trasformato la finanza, il linguaggio e l’informazione: la convinzione che, con dati sufficienti, tutto diventi prevedibile e ottimizzabile. Ma la biologia non è un sistema chiuso. Le interazioni tra geni, l’effetto delle mutazioni epigenetiche, la plasticità dello sviluppo e l’imprevedibilità ambientale fanno sì che nessun modello poligenico possa essere tradotto in garanzia fenotipica. Gli algoritmi che cercano di trasformare il genoma in una previsione di comportamento o di salute non descrivono l’individuo reale, ma una media astratta. Usarli per selezionare o modificare un embrione significa introdurre nella linea germinale umana l’errore sistematico dei nostri modelli.

A differenza dell’editing genetico somatico, che può correggere un difetto in un paziente già esistente, l’editing germinale genera una trasmissione ereditaria di modifiche il cui effetto complessivo è ignoto. Anche quando la correzione avviene nel punto previsto, può comportare perdite di sequenza, inserzioni spurie, riarrangiamenti cromosomici o mutazioni compensatorie. In molti casi, come dimostrato dagli esperimenti più recenti, l’embrione editato diventa un mosaico di cellule diverse, e il risultato finale — l’individuo — potrebbe contenere mutazioni distinte in tessuti differenti. Un tale livello di incertezza non è compatibile con la riproduzione umana, e i protocolli di controllo preimpianto non permettono di escludere completamente alterazioni strutturali o epigenetiche.

Ma il nodo più profondo non è la paura dell’imprevedibile: è la sproporzione epistemica tra ciò che sappiamo gestire e ciò che pretendiamo di controllare. La correzione di un singolo difetto genetico — come una mutazione mendeliana a elevata penetranza, per esempio nella fibrosi cistica o nella distrofia di Duchenne — è un obiettivo realistico, almeno in linea di principio: si tratta di intervenire su una causa diretta e ben definita, in un contesto in cui la relazione fra genotipo e fenotipo è chiara. Al contrario, l’idea di introdurre simultaneamente modifiche che agiscono su decine o centinaia di geni — ciascuno dei quali partecipa a più vie metaboliche, circuiti regolatori e processi di sviluppo — presuppone di poter governare un’intera rete dinamica di interazioni biochimiche e ambientali che non conosciamo nei dettagli. È un salto concettuale enorme: dalla riparazione di un ingranaggio specifico alla pretesa di riprogettare il funzionamento di un sistema complesso, sensibile alle condizioni iniziali e capace di evolvere lungo traiettorie diverse anche a parità di genoma.

Gli esseri umani non sono semplici espressioni di un codice, ma il risultato di una storia di sviluppo in cui l’ambiente intrauterino, le fluttuazioni metaboliche, l’attività stocastica dei geni e le interazioni cellulari determinano differenze individuali non riducibili al DNA. Perfino gemelli monozigoti, identici nel genoma, mostrano differenze significative in altezza, metabolismo, carattere o vulnerabilità a malattie complesse, proprio perché le reti biologiche che li generano sono caotiche entro certi margini e sensibili alla storia di sviluppo. Pretendere di prevedere e dirigere l’esito di queste reti attraverso modifiche multiple del genoma significa sottovalutare la natura stessa dei sistemi viventi, che non rispondono a leggi deterministiche semplici ma a regole di interazione emergente.

Ciò che sorprende non è la temerarietà tecnica, ma l’arroganza epistemica che la accompagna: l’idea che si possa applicare all’evoluzione biologica la stessa logica di iterazione e ottimizzazione che guida lo sviluppo del software. In realtà, la biologia è un sistema di vincoli non lineari, e il genoma non è un programma che si possa “debuggare”: ogni variazione influisce su reti di regolazione che non comprendiamo ancora, e ogni intervento germinale produce conseguenze cumulative e non reversibili.

In questo contesto, l’attenzione si concentra inevitabilmente anche sui protagonisti scientifici di questa frontiera. Il fondatore di Preventive, Lucas Harrington, si è formato nel laboratorio di Jennifer Doudna, co-scopritrice del sistema CRISPR e premio Nobel nel 2020. Doudna ha riconosciuto pubblicamente il rigore del suo ex allievo e la volontà dichiarata dell’azienda di mantenere trasparenza, ma ha anche sottolineato che “l’intera comunità scientifica osserverà attentamente per capire se le prove giustificheranno davvero di procedere”. È un’affermazione che riassume perfettamente la tensione del momento: la consapevolezza che la maturità tecnica del CRISPR non coincide con la maturità scientifica necessaria per usarlo nella linea germinale umana in modo indiscriminato e su molti bersagli in contemporanea.

Nel frattempo, le altre società coinvolte — Herasight, Nucleus, Orchid, sostenute da investitori come Peter Thiel, Alexis Ohanian, Vitalik Buterin e Anne Wojcicki — spingono in direzione complementare, offrendo screening genetici basati su algoritmi che pretendono di stimare intelligenza, altezza o rischio di malattie mentali. Alcune di esse, come Herasight, si rivolgono esplicitamente a clienti facoltosi, offrendo pacchetti da decine di migliaia di dollari per “ottimizzare” la scelta degli embrioni. In questo ecosistema, Armstrong e Altman rappresentano la versione più ambiziosa: non più scegliere, ma modificare.

Nel complesso, l’impresa di Preventive e dei suoi imitatori non segna un avanzamento della medicina, ma la nascita di un paradigma diverso, in cui la cura diventa selezione e la selezione diventa marketing.

Ciò che nel 2018 appariva un atto isolato di hybris scientifica — l’annuncio del biologo cinese He Jiankui, che rivelò di aver fatto nascere due gemelle il cui genoma era stato modificato con CRISPR per renderle resistenti all’HIV — fu accolto allora come una violazione del consenso scientifico e un allarme etico globale. L’esperimento, giudicato prematuro e irresponsabile, portò alla sua condanna in Cina e alla richiesta di una moratoria internazionale. Ma a distanza di pochi anni, quello che era stato definito un gesto di presunzione individuale riappare ora sotto forma di piano industriale, sostenuto da capitali di rischio e dai protagonisti della rivoluzione digitale. La fede nel calcolo e nell’ottimizzazione, che ha già trasformato la nostra cultura cognitiva, si prepara ora a ridefinire la biologia della specie. Non si tratta più di un errore morale di un singolo scienziato, ma di un’intera traslazione epistemica: l’uso improprio di strumenti statistici e algoritmici come se fossero strumenti causali, applicati alla riproduzione umana.

In questo senso, il problema non è etico in astratto, ma scientifico in concreto: si sta tentando di applicare strumenti ancora conoscitivamente instabili come se fossero consolidati, spinti da logiche economiche e dall’inerzia tecnologica più che dal progresso del sapere. Qui non è la scienza ad aver varcato i propri limiti, ma la sua deformazione — quella che procede ignorando il metodo che la fonda. La scienza non è mai consistita nel credere di sapere tutto, bensì nel sapere quanto ancora resta ignoto: è proprio questa consapevolezza a distinguerla dalle ideologie, dai mercati e dalle mode intellettuali. Per questo è necessario difenderla da due fraintendimenti opposti. Da un lato, da chi la usa come marchio di legittimazione per operazioni che ne contraddicono la logica interna, trasformando la ricerca in prototipo e il dato in promessa commerciale. Dall’altro, da chi, reagendo a tali abusi, accusa la scienza di ridurre la vita a un algoritmo o di coltivare un sogno di onnipotenza.

Difendere la scienza, oggi, significa ricordare che essa è l’unico strumento affidabile che possediamo per distinguere ciò che è vero da ciò che è soltanto possibile. La sua forza non sta nella cautela moralistica, ma nella capacità di costruire conoscenza verificabile e di correggere i propri errori in pubblico. È proprio questo che la separa sia dal mercato, che trasforma ogni ipotesi in prodotto, sia dall’antiscienza, che confonde ogni incertezza con un fallimento. La scienza non ha bisogno di essere frenata o redenta: ha bisogno di essere rispettata nei suoi tempi, nelle sue prove e nei suoi limiti, perché solo seguendo quel metodo — non anticipandolo — si trasforma l’ignoto in sapere e non in pubblicità di merce avariata.

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Il Foglio

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