“Quando sono stanchi chiamano l’elicottero per venire a prenderli, arrivano al rifugio e chiedono prosciutto e melone”: la rabbia del Cai contro l’overtourism in montagna

  • Postato il 13 agosto 2025
  • Viaggi
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Chiedono un elicottero perché sono stanchi, arrivano a 2.300 metri di quota senza maglione e ordinano prosciutto e melone in rifugio come fossero al mare. Non sono barzellette, ma scene di ordinaria follia turistica sull’arco alpino, invaso da un’ondata post-pandemica di escursionisti inesperti. Un fenomeno che, tra imprudenze e richieste surreali, sta mettendo a dura prova la pazienza dei rifugisti e l’impegno del Soccorso Alpino, come racconta il Corriere della Sera che ha raccolto le loro testimonianze.

“Durante il periodo del Covid si andava in cerca di grandi spazi con distanze fra le persone. Così la gente ha cominciato a salire in montagna e si è accesa la passione in tanti giovani, ma non solo”, spiega Paolo Valoti, past president del CAI di Bergamo. “Da allora la quantità di gente se non è raddoppiata poco ci manca”. Un boom che, però, non sempre è andato di pari passo con la consapevolezza. Valoti racconta un episodio emblematico: “L’altro giorno ero nella Valle del Salto a sistemare il sentiero e c’era un ponte di neve spesso tre metri. Mentre lo guardavo è crollato. Io sapevo che non bisognava passarci. Lì vicino c’era gente che da com’era vestita si vedeva che non era esperta: e se ci fosse salita sopra?”.

Molti degli interventi del Soccorso Alpino, infatti, riguardano persone che hanno sottovalutato il percorso. E la colpa, spesso, è dei social network: “La gente vede foto di un posto che le piace, pensa che sia semplice arrivarci e parte per andarci senza immaginare le difficoltà di chi è arrivato a scattare l’immagine”, spiega il delegato provinciale del Soccorso Alpino, Damiano Carrara. “Tante cose sembrano semplici, ma dietro c’è una programmazione che non emerge”. Il risultato sono escursionisti che “non pianificano il percorso, ma nemmeno l’attrezzatura o le proprie capacità fisiche”. Carrara cita un caso recente: “Nella Valle dei Mulini abbiamo appena soccorso quaranta persone da fuori provincia che ci hanno detto di non avere avuto la minima idea di come sarebbe stato il percorso, pieno di torrenti da guadare. Una di loro si è fatta male e l’abbiamo assistita. Ma abbiamo dovuto riaccompagnare anche gli altri”.

Questo scontro tra culture, quella della montagna e quella del turismo “mordi e fuggi”, si manifesta con scene tragicomiche nei rifugi. “Domenica mi hanno chiesto prosciutto e melone, credevano di essere sul lago”, racconta Fabrizio Gonella, da 16 anni gestore del Rifugio Coca a 1.892 metri. Ancora più diretto Francesco Tagliaferri, 79 anni, da 40 al rifugio che porta il nome di suo fratello Nani, a 2.328 metri: “Arrivano con zaini di due etti, a torso nudo e senza maglioni e poi capiscono che a 2.300 metri fa freddo. A uno ho chiesto: dove hai i pantaloni lunghi? ‘A casa’, mi ha risposto. Non posso mettermi a fare le prediche, ma certa gente non so cos’ha in testa”.

In questo contesto, colpisce il paradosso delle tragedie. Le ultime vittime sulle Orobie, ricorda Valoti, sono state persone esperte, tradite dall’imponderabile: “L’inciampo può capitare a chiunque, un masso può cadere per le piogge o per gli animali”. Ma per i novizi, il pericolo è spesso l’imprudenza. “Capita di trovare quello in ciabatte, ma anche la scarpa da ginnastica è sbagliata“, spiega il presidente del CAI, Dario Nisoli. “Basta una storta o il classico temporalino di metà pomeriggio e ci sono problemi”.

I consigli sono sempre gli stessi: scarpe da trekking, acqua, una protezione per pioggia e freddo, scegliere sentieri alla propria portata e, soprattutto, usare le app gratuite di geolocalizzazione per sapere sempre dove ci si trova. Perché la montagna è bella e accoglie tutti, ma non fa sconti a chi la affronta con superficialità.

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