Quei conformisti senza idee e pensieri propri che si sono fatti travolgere dal vento pro-Pal

  • Postato il 11 ottobre 2025
  • Politica
  • Di Libero Quotidiano
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Quei conformisti senza idee e pensieri propri che si sono fatti travolgere dal vento pro-Pal

Com’era necessario e come l’ordine naturale delle priorità imponeva, qui su Libero ci siamo occupati a lungo, nei giorni e nelle settimane passate, dei manifestanti che - per comodità e rapidità - potremmo definire “in malafede”: mi riferisco ai violenti, ai portatori di slogan apertamente antisemiti, più il contorno di politici e sindacalisti pronti cinicamente a strumentalizzare la protesta, a soffiare sul fuoco, a sperare - in ultima analisi - di alimentare un caos da scaraventare addosso al governo.

Ma adesso è venuto il momento, a mente fredda, di dedicarci all’esercizio più delicato e doloroso, quello relativo ai manifestanti che potremmo senza timori considerare “in buona fede”, quelli cioè che si sono fatti coinvolgere emotivamente dalle innegabili sofferenze a cui tutti assistevamo da Gaza, ma che non hanno avuto (né si sono troppo preoccupati di procurarsi) gli strumenti per capire bene. Per capire - intendo - che era in primo luogo ad Hamas che occorreva attribuire la responsabilità di quei lutti. E che, anziché focalizzare la propria ostilità contro Israele, si trattava di fare esattamente l’opposto: isolare i terroristi per indurli alla resa. Si tratta di ciò su cui si sono concentrati Netanyahu (militarmente) e Trump (diplomaticamente), cogliendo il risultato prezioso della tregua. Ma questo è ormai chiaro, almeno a noi.

E allora - ecco il punto - cos’è che ha indotto così tante persone sincere e in buona fede a cascare in trappola? Certo, un’umanissima propensione al conformismo: in qualunque ambiente e a qualunque età (a scuola, con i colleghi di lavoro, in mezzo agli amici), è sempre difficile nuotare controcorrente, e non si può pretendere da una persona comune un comportamento da “eroe”. Se il vento tira in una certa direzione, è facile essere trascinati.

Ha pesato molto - poi - una campagna mediatica martellante. Inutile girarci intorno: in Italia si conteranno in tutto quattro o cinque giornali dalla linea editoriale non scopertamente e pregiudizialmente anti-Israele, mentre per le trasmissioni televisive bastano poche dita di una sola mano. Tutto il resto è stato ed è ancora un muro di conformismo. Irrobustito e cementato - per giunta da intellettuali, cantanti, artisti, con tutta la forza emotiva ed evocativa dei loro messaggi.

Ma oltre ai fattori esogeni (i media, l’ambiente, gli opinion leader) ha pesato e pesa, a mio modo di vedere, anche un fattore interno, un elemento psicologico che caratterizza molte persone nell’era della “likecrazia”, in un contesto anche social in cui il consenso è tutto, e in cui si è sempre più spaventati dal rischio di isolamento personale.

Ecco il punto: troppi, da molti anni, hanno bisogno di una “causa”, anzi di una “causa buona”, cioè socialmente accettata, per definire la propria identità. Se ci pensate, è la stessa logica con la quale alcuni preparano e pubblicano la mini-descrizione del proprio profilo su un canale social aggiungendo una bandierina (“buona” pure quella, mi raccomando) o un hashtag (pensate all’indimenticabile #restiamoumani) per certificare il proprio stare dalla parte “giusta”.

Dopo di che, il merito della causa, il contenuto del problema, stanno in secondo piano. L’importante è aderire, stare confortevolmente in una maggioranza sociale (o in quella che si percepisce come tale), avere intorno l’approvazione dei propri simili, identificare i “cattivi” dall’altro lato, e con ciò trovare il proprio posto in società.

Così, ai tempi della crisi finanziaria, si trattava di schierarsi “contro le corporations e contro il neoliberismo”; ai tempi di Black lives matter, contro il cosiddetto “razzismo sistemico” (con tanto di inginocchiamenti a casaccio di sportivi e personaggi televisivi, come per emendarsi dalla “colpa” di essere bianchi); e lo stesso meccanismo di adesione gregaria e conformista si ripete da anni in mille altre occasioni (pensate ai gessetti colorati dopo un attentato islamista, alla formula-giaculatoria “siamo tutti XY” ripetuta dopo una strage, dopo una catastrofe, salvo dimenticarsi la “causa” il mattino dopo).

A maggior ragione, anche pagando dei prezzi di impopolarità (ma non dobbiamo vivere per i like), servono battaglie culturali e controcorrente come quelle che ha condotto Libero in tutti questi mesi. Dobbiamo esserne fieri, anche quando si tratta di posizioni difficili e costose. Si può apparire impopolari in qualche giornata, ma alla fine il tempo sa essere galantuomo.

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Autore
Libero Quotidiano

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