Quella mafia cinese che si nasconde dietro il lavoro 

  • Postato il 3 maggio 2025
  • Di Panorama
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Opacità. Questo termine, da ormai molto tempo, connota la comunità cinese in Italia. Cioè la mancanza di trasparenza. Questo riguarda la vita stessa di chi ne fa parte. L’esempio più eclatante è quello del mistero delle morti e dei funerali dei quali non si ha traccia. E non è poco. Ma oltre a questo, da sempre, c’è il problema delle condizioni, dei luoghi, dei diritti violati, del commercio illegale, della contraffazione, delle licenze commerciali che vengono trasferite in tempi brevissimi sotto nomi spesso incontrollabili o società delle quali si sa poco o nulla. Le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori tutt’ora permangono spesso inumane e avvolte dal segreto. Le forze dell’ordine si danno molto da fare, come anche le Procure, ma l’opacità in cui si svolge il tutto, e l’omertà che caratterizza questa comunità, rende, talora, quasi impossibile entravi e scoprirne i reati derivanti dai diritti negati a chi è impiegato nei tanti laboratori.

Più che «Via della seta» questa è via dell’illegalità e, purtroppo, a tutt’oggi, essa prevale sulla legalità. Ciò non vuol dire, ovviamente, che l’intera la comunità cinese sia così; ma vuol dire che la sua attività economica è spesso sleale, sia nel commercio dei prodotti in Italia, sia per i lavoratori e le lavoratrici cinesi in Italia, sia – soprattutto – per il cosiddetto dumping e cioè la vendita all’estero, da parte delle aziende cinesi, a prezzi inferiori da quelli praticati sul mercato internazionale – che ha consentito alla Repubblica popolare di conquistare mercati esteri anche in presenza di barriere doganali, cioè di dazi «anti dumping». 

Questo perché, come in Italia, anche in Cina c’è uno sfruttamento dei lavoratori più deboli per la mancanza di rispetto dei diritti minimi sui luoghi di lavoro e dei diritti sociali, con conseguente produzione di merci a condizioni di costo ovviamente molto competitive. 

Insomma, da quelle parti non ci sono quelle tutele e quei diritti del lavoro che ci sono nei nostri Paesi e questa mancanza di rispetto del diritto li rende più performanti, andando contro tutte le regole dettate dal diritto internazionale e dalla concorrenza. A questo si aggiunge un altro fenomeno che non è meno preoccupante, anzi, è quello della cosiddetta mafia cinese. Basti pensare che a Prato ci sono ben sei magistrati che si occupano della criminalità connessa alla comunità. Negli ultimi tempi si è assistito a una vera scia di sangue che vede contrapposti due gruppi criminali cinesi che, purtroppo, hanno il loro fulcro di violenza (e affari) nel cuore della Toscana, a Prato. 

Sono accaduti episodi anche a Parigi e a Madrid, nelle scorse settimane, con incendi dolosi fatti divampare in numerosi magazzini di abiti. Com’è noto, a Prato, c’è la più grande comunità orientale italiana – 25 mila cinesi su 200 mila residenti –, uno su dieci. L’hanno chiamata la «guerra delle grucce» riferendosi evidentemente al settore tessile e dell’abbigliamento. Il duplice omicidio di alcuni giorni fa al Pigneto a Roma è solo l’ultimo di una serie di episodi nella Capitale. Basti pensare che nel Pratese ci sono cinquemila aziende di pronto moda che producono centinaia di migliaia di abiti al giorno. 

Tra i due clan cinesi la guerra riguarda fondamentalmente il monopolio di questa produzione. Ma non si fermano qui, perché il controllo si estende anche a traffici illegali come lo spaccio di ketamina e il gioco d’azzardo. È da Prato che vengono governanti nelle due città più importati, Roma e Milano. Fanno pensare, e destano molta preoccupazione, le parole di Salvatore Calleri, intervistato dal Messaggero. È il presidente della Fondazione Antonino Caponnetto che da 24 anni studia il fenomeno della mafia cinese, tant’è vero che è consulente della Commissione parlamentare Antimafia su questo argomento. 

Gli è stato chiesto se si possa parlare di mafia e la risposta è stata: «Lo è sia dal punto di vista sociale che giuridico: c’è una sentenza della Cassazione del 2001 che lo riconosce». Gli è stato anche chiesto se Cosa nostra, camorra e ’ndrangheta partecipano a questa lotta tra fazioni. Calleri ha risposto: «Un rischio per una delle due fazioni cinesi esiste perché esistono affari in comune… quelle cinesi oramai hanno tutte le caratteristiche delle nostre mafie: controllo del territorio, uccidere per utilità, ricerca del monopolio con la violenza». Abbiamo l’impressione che molta della seta della famosa «Via» possa finire nelle bare delle vittime di questa mafia che si sta espandendo complice l’opacità della comunità cinese, soprattutto negli affari.

Autore
Panorama

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