Quelle sottili lezioni americane per Meloni e Schlein. Scrive Sisci
- Postato il 9 novembre 2025
- Politica
- Di Formiche
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Forse non c’è da vedere troppo nella visita del premier ungherese Viktor Orban a Washington o nella vittoria del giovane sindaco democratico di New York Zohran Madmani, avvenimenti letti spesso tutti in salsa de noantri.
Non è un incoraggiamento al governo di Giorgia Meloni di avvicinarsi a Budapest, né l’assicurazione al Pd di Elly Schlein che i prossimi a Washington scaricheranno Meloni. Comunque ci sono tante lezioni più sottili.
L’amministrazione Donald Trump ha deciso che è fondamentale cercare di parlare con tutti, giustamente. Trump ha incontrato i presidenti russi e cinesi Vladimir Putin e Xi Jinping. È al lavoro per un vertice con il leader nordcoreano Kim Jong-un. Questo non significa che gli Stati Uniti stiano radicalmente cambiando le proprie priorità. Lo stesso è per Orban.
Trump ama essere adulato ed è un grande adulatore. Se si obbedisce a questo balletto rituale, in cui l’ospite in arrivo offre un omaggio virtuale di lodi al padrone di casa, sarà ricambiato. È uno scambio di favori mediatici per le rispettive opinioni pubbliche interne.
Ma non finisce tutto qui. Al di là di Trump c’è una vecchia e ormai progressiva sfiducia complessiva americana verso l’Unione Europea (Ue). Oltre le grandi parole di Bruxelles, l’Unione è un impaccio reale. Non sostituisce gli Stati, al punto da parlare al posto loro, però resta un laccio nei rapporti dei singoli stati con gli Stati Uniti. La questione della difesa, in senso particolare e generale, è un punto dolente, dove in America c’è un consenso bipartisan. Repubblicani e Democratici ammettono che Trump è riuscito a scuotere il dossier.
La difesa europea è spesso troppo lenta e troppo incerta a muoversi da parte dei singoli Paesi, e d’altro canto pare interessata a uscire dal vincolo Nato. Anche l’America ha una stanchezza con la Nato, ma la stanchezza europea è diversa. L’America è stanca della Nato perché non ha voglia di difendere l’Europa se l’Europa non si muove anche da sola. Esagerando, ma poi non tanto, l’Europa sembra stanca della Nato, perché se l’America non fa da scudo alla Ue al posto degli eserciti europei, allora gli europei vogliono farsi uno scudo senza l’America.
I punti sono sottili ma profondissimi quanto le incisioni di un bisturi. In questa dinamica molto incerta allora l’America parla con i paladini dell’Unione, ma anche con gli avvocati della disunione come Orban. Inoltre la dinamica della difesa va oltre il puro aspetto militare. L’Europa ha una politica confusa, disordinata, contraddittoria sulla questione Cina, il nodo principale della politica estera americana. L’Ue si concentra praticamente solo sul problema del commercio con la Cina: cosa importare e come, cosa esportare e come.
Recentemente la Spagna si è mossa da sola per cercare un riabbraccio con Pechino. La cosa per Pechino è doppiamente importante perché Madrid offre una finestra sia sull’Europa sia sull’America latina. Su tale apertura sembra esserci stato meno scandalo rispetto a passi simili dell’Ungheria.
D’altro canto c’è la questione Nexperia, l’azienda di produzione di microchip in Olanda di proprietà cinese, nazionalizzata dal governo dei Paesi Bassi e ora forse restituita alla Cina per pressioni cinesi. Essa dimostra la difficoltà dei singoli Stati europei e dell’Unione di essere certi nei confronti di Pechino. La Cina ha una serie di strumenti di pressione verso Bruxelles che invece mancano a Bruxelles. Non è chiaro se l’Ue pensa di dotarsene e come.
In questo contesto per Washington il lavorio con l’Europa è necessario, importante per l’importanza del mercato e dell’economia europea in senso globale e rispetto al mercato cinese. Ma c’è anche un tasso di ritorno sugli investimenti diplomatici molto più basso che in Asia dove l’America ha l’impressione di incidere più efficacemente.
Al di là degli inciampi e delle gaffe, l’America sta riuscendo nel miracolo senza precedenti di avvicinarsi contemporaneamente a Pakistan e India, entrambi preoccupati per motivi diversi, della espansione cinese. Riuscire a portare tutto il subcontinente indiano nell’ambito di un’alleanza politico-militare asiatico-americana, unita poi ad alleanze vecchie e nuove, consolidate e rinnovate, del resto del continente, crea un blocco. Esso non sarà solidissimo ma è significativo – quasi tre miliardi di persone intorno alla Cina. Ciò potrebbe non essere un sostituto dell’Unione Europea, ma certo può avere un uso più certo e immediato nella politica americana in Asia.
Il quadro politico generale è condiviso a larghe linee da repubblicani e democratici. Al di là degli accenti e dello stile personale, un presidente democratico Washington potrebbe essere nei fatti più falco di Trump verso l’Europa, o la Cina.
La sinistra europea, la destra tradizionale europea, motori principali della politica continentale fino ad oggi, probabilmente devono fare i conti con questo quadro. Quindi forse l’Ue dovrebbe ripensare un approccio di lungo termine con gli Stati Uniti, non solo riguardo alla Russia o al Medio Oriente ma in particolare rispetto alla Cina.
Senza ciò, il rapporto transatlantico potrebbe essere destinato a sfilacciarsi al di là della crescita o meno dei partiti della nuova ultradestra. Essi tanto piacciono a certa opinione pubblica ultraconservatrice statunitense, e questo gusto viene riflesso in Europa, da destra e sinistra, per scopi casalinghi, ma forse perdono dei punti di fondo.
Questo ci riporta in Italia. Qual è la politica del Pd o del M5S rispetto a questo contesto? Cosa vuole fare il Pd rispetto alla politica americana con la Cina? Non è un tema che porta voti o urla di sostegno nelle piazze, ma è il motore vero e profondo che muove e muoverà il rapporto tra Roma e Washington con o senza Trump.
Non ci sono risposte facili. Ma senza tali risposte il Pd avrà difficoltà a trovare un suo equilibrio in grado di sfidare Meloni. Nella confusione europea e nella ancora maggiore confusione italiana, Meloni rappresenta un’àncora leggera, ma comunque presente, di stabilità. Non riesce per mille motivi a indirizzare la politica Ue in un senso più costruttivo, da un punto di vista americano. Non riesce a trovare un equilibrio creativo e positivo di convergenza tra Europa e America, ma almeno c’è. Il Pd semplicemente non c’è.
Certo il Pd può fare come ha fatto Meloni o altri in passato: non preoccuparsi della politica con l’America fino al giorno prima di entrare a Palazzo Chigi. Da quel giorno poi semplicemente allinearsi. In realtà forse le cose oggi in America sono cambiate e potrebbe non bastare una irreggimentazione supina all’ultimo minuto.
Qui il doppio compito per il Pd ma anche per Meloni. I rapporti dell’Italia con l’America e dei partiti italiani sono importanti, non questioni di simpatie o antipatie personali. Quindi il Pd deve avere un rapporto solido con le istituzioni americane. Schlein, con passaporto americano, volontaria per la campagna di Obama, ma non può prescindere da un rapporto con l’amministrazione Trump. Trump, o chi per lui, del resto, parla con Kim perché non dovrebbe parlare con Schlein?
Allo stesso modo Meloni. Mamdani, non sarà mai presidente Usa, ma è destinato a essere un peso massimo della politica americana, forse è superficiale cercare di ignorare un filo anche con lui.
Ci sono punti di equilibrio delicati, bisogna non incrociare i tanti cavetti in ballo e non creare cortocircuiti. In fondo gli italiani, sempre attenti alle opportunità, potrebbero muoversi in questo senso.
Però bisogna pensare pesante. Non è questione di scambiarsi due frasi in inglese ed essere simpatici (qui gli italiani di ogni colore vincono sempre l’Oscar). Bisogna pensare al futuro dell’Italia e dell’Europa, questioni su cui l’assenza bipartisan di Roma di oggi è erede di assenze ormai decennali.
Qui, rispolverando un vecchio slogan del passato, occorre capire non cosa l’America può fare per l’Europa, ma cosa l’Europa può fare per l’America – a proposito di Cina. Se l’Italia ha una qualche risposta a questa domanda allora è un passo avanti sul fronte americano ed europeo.
Occorre un bagno di realtà, e cioè cominciare a studiare sul serio, o prendere qualcuno che ha studiato. Sul progetto più simbolico e trasformativo del Paese, il ponte sullo Stretto, il governo ha fatto un pasticcio meno che puerile. Luigi Bisignani sul Tempo ne racconta i dettagli. In sostanza non era pronto alcun piano.
“In un’Italia che annuncia prima di studiare, clicca prima di leggere e firma prima di capire anche i sogni finiscono tra le pieghe di un file dimenticato”, chiosa Bisignani.
Così il ponte non partirà mai. Senza ponte forse si rompe l’ultimo anello della fragile catena d’Italia. Europa e America così diventano un orizzonte quasi retorico.