Qui dove il ritratto di due padri e forme di destino arriva alla perfezione

  • Postato il 26 luglio 2025
  • Di Il Foglio
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Qui dove il ritratto di due padri e forme di destino arriva alla perfezione

Di autori capaci di scrivere romanzi se ne vedono da tempo sempre meno. Anche per questo la parola romanzo viene usata dagli editori come un mantra pubblicitario per incrementare le vendite più che per definire un libro. Romanzo è diventato sinonimo di libro. Infatti, se si pensa alla grande tradizione del romanzo, compresa quella novecentesca, sembra davvero che si tratti ormai di un genere letterario in declino, se non in via di estinzione. Quello del romanzo è oggi un mito a cui si ricorre per promettere creatività e fiction.

Leggendo l’ultimo libro di Elisabetta Rasy Perduto è questo mare, mi sono presto reso conto che non di romanzo né di finzione si trattava, ma di una eccellente, perfino virtuosistica performance di saggistica narrativa e interpretativa, in cui l’immaginazione è al servizio dell’indagine autobiografica. Per capire che cosa è accaduto nella propria vita, che cosa ha orientato magneticamente fatti, atti e atmosfere della propria storia personale c’era bisogno soprattutto di intelligenza interpretativa. E per narrare interpretando c’era bisogno non di inventare una storia, quanto piuttosto di guardare sia alla superficie che oltre la superficie della realtà. Come nella pittura classica si è fatta grande arte in un genere supremo come quello del ritratto e dell’autoritratto, così si può fare anche scrivendo. In Perduto è questo mare, il ritratto di due caratteri e forme di destino, il ritratto di due padri, quello naturale e quello culturale, arriva alla perfezione e a un massimo di suggestione atmosferica e simbolica. In un vortice di memorie, di interrogativi e di intuizioni, Lello Rasy e Raffaele Dudù La Capria realizzano un’autobiografia dell’autrice per interposta persona. La narratrice interprete affronta con l’aiuto dei due padri una discesa agli inferi in cerca di una risposta alla domanda più esigente e rischiosa, la domanda su sé stessi.

 

                                  

 

Due padri e due città, la Napoli inabitabile della prima giovinezza e una Roma da scoprire, da esplorare e studiare cercando di incontrarla sempre di nuovo nei suoi luoghi e angoli più nascosti e più intimi, quelli nei quali si sente di incontrare sé stessi.

Dalla biografia e dalle biografie, soprattutto femminili, Rasy è sempre stata attratta, come si è visto soprattutto in uno dei suoi libri migliori come Le disobbedienti, dedicato alla vita di sei importanti pittrici. In Perduto è questo mare, a intensificare l’arte dell’interpretazione narrante interviene uno dei più famosi miti classici, quello di Enea, eroe non solo dell’instabilità, della malinconia e della fuga da una patria distrutta per raggiungerne un’altra; ma anche eroe che porta sulle sue spalle il peso di un padre sofferente. Una passione nuova quella con cui Rasy evoca in Enea l’ombra del padre sconfitto e sprofondato nei suoi sogni e in un sonno che allontana da sé un presente ormai divenuto per lui incomprensibile: questo è il padre naturale, il padre dell’ombra, di un ordine sognato che lo rende incapace di rispondere a un mondo da cui si sente escluso. E’ il padre dell’inettitudine e di un sonnambulismo aristocratico.

Il padre tardivo, quello culturale e compensatorio, è La Capria. In lui felicità e malinconia si alternano e convivono con miracolosa naturalezza e civiltà, o come un ammirevole esercizio di saggezza. Il padre originario, Lello Rasy, è quello di uno spaesamento inguaribile nella Napoli del dopoguerra, minacciosa e abitata da “nuovi ricchi privi di scrupoli”: sognava una carriera militare mai compiuta, la cui inafferrabilità lo paralizzava. Ma anche l’altro padre, quello armonioso e saggio, lo scrittore La Capria, aveva i suoi mali, e il suo sentirsi “ferito a morte” lo rendeva sempre sensibile alla malinconia del crepuscolo e al “dolore annidato nel passato”. Anche se di tutt’altra origine e natura, un “sentimento di inadeguatezza” assillava anche La Capria: “Raffaele sentiva che la grande stagione del romanzo era finita o stava finendo proprio nel momento in cui (…) la letteratura aveva dato forma al suo rapporto con la vita (…) negli ultimi tempi, quando rileggeva in continuazione Dostoevskij e I Karamazov come un testo religioso”. Lo scrittore viveva come un lutto il declino, la difficoltà o l’impossibilità del romanzo. Tra le cose perdute c’era anche la forma-romanzo. Se ancora compariva, il romanzo era secondo lui “anemizzato oppure irrigidito in qualcosa di prevedibile, semplici trame che avevano perduto il loro potere sapienziale”.

Ho letto Perduto è questo mare come un poema interpretativo e una risposta saggistica alla perdita del romanzo di cui La Capria parlava e che lo aveva portato alla lunga serie di riflessioni autobiografiche che vanno da L’armonia perduta e Capri e non più Capri fino a L’amorosa inchiesta. Descrittive, critiche e poetiche sono molte pagine del libro di Rasy, esattamente dalla prima all’ultima, con la loro vertigine, la loro ansia ritmica e lirica, le loro onde sintattiche. La clausola felice del libro è dovuta comunque a quell’infelice primo padre inerte e malinconico, avvolto nell’ombra di sé stesso, che insegnò però a tuffarsi a sua figlia bambina: “Il primo tuffo... Capisco che mi piace, ho vinto la paura, mi tuffo ancora, poi ancora e ancora (…) tutto è perfetto come se la beatitudine di quella giornata non potesse mai finire”.

Il lettore capirà che la vera e decisiva invenzione di questo libro di Rasy è la sua prosa analitica, avvolgente, evocativa e critica. Che deve qualcosa o molto a quella di La Capria, narratore saggista autobiografico al di là del romanzo. 
 

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Autore
Il Foglio

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