Referendum sulla cittadinanza, le bufale sui numeri

  • Postato il 5 giugno 2025
  • Di Panorama
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Una conquista decisiva per 2,5 milioni di cittadini stranieri. I promotori del referendum che il prossimo 8 e 9 giugno chiede di ridurre da 10 a 5 gli anni necessari a diventare italiani l’hanno perorata così. Una causa buona e giusta per tanti immigrati che non vedono l’ora di diventare italiani e che invece sarebbero ostaggio di leggi vecchie e retrograde. La cifra campeggia da settembre sul sito di +Europa, partito guidato da Riccardo Magi, presidente del comitato promotore, e viene ripresa nelle interviste rilasciate dal segretario della Cgil Maurizio Landini. Le cose però stanno un po’ diversamente e una prima operazione di chiarezza la fa Idos, centro studi certamente non accusabile di insensibilità verso le cause immigrazioniste, che decurta il bacino di potenziali nuovi italiani di quasi la metà.

Le vere cifre del centro studi

Rispetto alla fantomatica cifra iniziale, Idos opera infatti una serie di aggiustamenti a partire dal bacino di partenza che non è di 2 milioni e mezzo ma di 2.139.000, ossia il numero di extracomunitari che secondo l’Istat sono titolari di un permesso di soggiorno di lunga durata da almeno cinque anni, il periodo di residenza a cui vorrebbe arrivare il referendum per concedere la cittadinanza.

A questi bisogna però sottrarre i cittadini di quei 50 Paesi non Ue la cui legislazione non consente la doppia nazionalità e che solitamente si mostrano ben poco propensi ad acquistare la cittadinanza italiana, dato che comporterebbe la rinuncia a quella del Paese di origine. Tra gli altri India, Etiopia, Congo e soprattutto Cina. Basti pensare che nel 2022 solo il 2% dei cinesi si è mostrato interessato a ottenere la cittadinanza italiana.

Si scende dunque a 1.706.000, dopo di che bisogna tagliare ancora. In particolare quanti non hanno i requisiti di abitazione e reddito minimo necessari. Poiché gli stranieri che si trovano in una condizione di rischio povertà o esclusione sono almeno il 40% secondo l’Istat, il bacino scende a una ipotesi minima pari a poco più di 1.024.000 persone. Meno della metà di quanto dichiarato.

Ma non è finita qui. Poiché gli stranieri titolari di un permesso di lungo periodo sono entrati in Italia per lo più tramite ricongiungimento familiare o con un permesso di lavoro, questi ultimi, nella maggior parte dei casi, risiedono in Italia da prima del 2008. Dopo questa data infatti, a causa della crisi, i decreti flussi per lavoratori non stagionali si sono ridotti a poche migliaia. Sono stati poi riattivati dal governo Meloni ma va da sé che gli ultimi ingressi non rientrino nel conteggio dei lungo soggiornanti. Parliamo dunque di immigrati che sono in Italia da almeno 17 anni e che avrebbero avuto tutto il tempo previsto dalla legge attuale per chiedere la cittadinanza italiana. Eppure non l’hanno fatto. Impedendo così a quanti sono entrati tramite ricongiungimenti familiari, coniugi e figli, di allargare ulteriormente la platea tricolore.

Snellire la burocrazia

I motivi del basso entusiasmo mostrato verso la cittadinanza italiana possono essere ricondotti a una varietà di fattori. Probabilmente il costo (in media 250 euro a pratica) e anche la tempistica: fino a tre anni di attesa più altri sei mesi per la cerimonia necessaria per formalizzare l’acquisizione. Insomma, un investimento che non tutti hanno tempo e voglia di fare, specialmente dato che il permesso di soggiorno di lungo periodo non limita in alcun modo gli stranieri nella partecipazione al mondo del lavoro o sociale. Se non per l’impossibilità di votare. Tassello importante per la piena partecipazione democratica ma che non è certo l’attuale legge sulla cittadinanza (numero 91/1992) a ostacolare. L’Italia si trova infatti tra i Paesi europei che concedono più cittadinanze: 214.000 nel 2023, 217.000 nel 2024.

Motivo per cui non si capisce perché occorra modificare la legge visto che le acquisizioni vedono numeri in crescita e che da almeno tre anni superano le 200.000 unità. E visto che buona parte del bacino di potenziali «esclusi» cui si rivolgono i sostenitori del sì avrebbe potuto richiederla da tempo.

Se l’intento della modifica di legge era quella di semplificare la vita agli immigrati e facilitarne l’integrazione, forse i proponenti avrebbero fatto meglio a puntare sullo snellimento della burocrazia anziché sul taglio degli anni necessari per fare la richiesta. Scelta però sicuramente di maggior impatto mediatico e che lancia agli stranieri un messaggio preciso, quello di politiche più aperte e accoglienti di quanto già non siano. Scelta che strizza l’occhio a possibili nuovi elettori e che, per quanti riusciranno a giovarne, fungerà da acceleratore dei ricongiungimenti familiari. Spesso e volentieri a carico.

Ius soli e Ius scholae non c’entrano nulla

La mancanza di serie argomentazioni rispetto alla necessità di modificare l’attuale legge si scorge anche nelle dichiarazioni di tante associazioni che sostengono il referendum trasformandolo in una sorta di voto su ius soli o ius scholae.

«Ci sono 914.000 studenti senza cittadinanza», dicono Save The Children ed Educazioni. Ma anche qui i numeri di Idos sono ben diversi: 347.000 a dire tanto. Non solo. Se il referendum passasse, lo status dei minori dipenderebbe comunque dalle scelte dei genitori e, qualora volessero chiedere la naturalizzazione autonomamente, dovrebbero aspettare il raggiungimento della maggiore età. Come già avviene con l’attuale legge. Peraltro con percentuali tiepide visto che su 21.183 ragazzi neo maggiorenni nel 2022, il passaporto italiano l’ha rivendicato non più del 57%. Percentuale simile nel 2021, ma solo il 40% nel 2020.

Insomma, una nuova possibilità di legge esattamente a beneficio di chi?

Autore
Panorama

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