Riforma della giustizia, Cassazione e Procura di Padova sostengono il cambiamento: separare le carriere per ridare credibilità ai magistrati

  • Postato il 13 novembre 2025
  • Di Panorama
  • 1 Visualizzazioni

Non temo la riforma costituzionale e voterò sì al referendum. E lo farò perché mi stanno a cuore la funzione del giudice, la sua autorevolezza nella società e le persone che vengono da lui giudicate.

Riforma della giustizia, Cassazione e Procura di Padova sostengono il cambiamento: separare le carriere per ridare credibilità ai magistrati

La riforma riguarda tre ambiti: la separazione delle carriere dei pubblici ministeri e dei giudici (e, di conseguenza, la scissione del Consiglio superiore della magistratura in due Consigli, uno per i giudici e l’altro per i pubblici ministeri), la creazione di una Alta Corte deputata a giudicare sulle sanzioni disciplinari richieste nei confronti dei magistrati, giudicanti e requirenti, e, infine, la formazione dei Consigli superiori non più su base elettiva, ma mediante sorteggio, sia dei magistrati (che mantengono la maggioranza dei due terzi), sia dei componenti indicati dal Parlamento.

Prima di affrontare il tema della separazione delle carriere, mi soffermo sul sorteggio dei componenti dei Consigli superiori. Un fatto «tecnico»? Non è affatto così. L’Associazione nazionale magistrati sostiene che la riforma svuoterebbe la rappresentanza democratica, alterando gli equilibri in favore della componente politica: ma non fa alcun cenno al «caso Palamara». Quel «caso», che ha portato alla radiazione del dottor Palamara – che era stato presidente dell’Anm e componente del Consiglio superiore della magistratura – dimostrava che i trasferimenti, le promozioni, le nomine importanti dei magistrati erano gestiti dalle correnti, con scambi di favori, segnalazioni, raccomandazioni, interventi di estranei, pressioni: un «controsistema» che si opponeva alle leggi, ai regolamenti, ai criteri che il Consiglio avrebbe dovuto applicare e che proseguiva da anni. Le correnti dell’Anm, dietro al ruolo di elaborazione culturale che si sono attribuite – «i diversi modi di intendere la giurisdizione» – nascondevano contatti, traffici, accordi: l’elezione dei componenti togati al Csm permetteva di realizzare questo sistema alternativo. È stato davvero uno «scandalo»: per i cittadini, che hanno scoperto che coloro che dovrebbero essere «soggetti soltanto alla legge» (articolo 101 della Costituzione) non lo erano affatto e, se necessario, la violavano ripetutamente; ma anche per la magistratura intera, che deve chiedersi – meglio: avrebbe dovuto chiedersi – quale credibilità e autorevolezza ha una categoria che punisce o dà torto ai cittadini «in nome della legge» e, contestualmente, si rende protagonista di patenti violazioni di legge.

Ecco che la riforma costituzionale, sganciando i componenti togati dal sistema delle correnti con il sorteggio, compie un’opera di «purificazione» della magistratura: intervento – ovviamente – frutto di una volontà politica, ma anche inevitabile. Se il referendum confermerà la riforma, questa novità sarà, negli anni, vantaggiosa per gli stessi magistrati.

Poche parole sull’Alta Corte nata per giudicare le contestazioni disciplinari mosse nei confronti dei magistrati: se ciò che conta davvero è che il magistrato «accusato» abbia la garanzia di avere davanti a sé un giudice autorevole e imparziale, la composizione dell’Alta Corte questa garanzia la fornisce appieno. Certo: non ci saranno magistrati componenti del Csm su cui, in qualche modo, fare affidamento; esattamente come avviene per qualunque accusato o imputato.

Veniamo alla separazione delle carriere: in forza della riforma costituzionale, i concorsi per magistratura saranno distinti per diventare pubblico ministero e giudice; i magistrati resteranno per l’intera carriera pubblici ministeri o giudici, senza possibilità di passare da una funzione all’altra; come si è già detto, per gli uni e per gli altri vi saranno due distinti Consigli superiori (ovviamente è prevista una normativa transitoria).

La prima obiezione: questo non rende la giustizia più rapida ed efficiente. Rispondo: ovviamente! La riforma costituzionale non ha questo obiettivo; effettivamente occorrono soldi, investimenti, assunzione di personale, costruzioni di carceri e così via per favorire l’efficienza della giustizia: ma in questo modo si parla d’altro.

Seconda obiezione: la riforma non è necessaria perché oggi meno dell’1% di magistrati cambiano funzioni (la riforma Cartabia aveva limitato i passaggi da una carriera all’altra). Se è così, perché questa veemente avversione verso la separazione delle carriere che non farebbe che formalizzare una situazione di fatto già in essere?

Ancora: la riforma «avvicina il pubblico ministero al potere esecutivo», rendendolo meno indipendente, trasformandolo in un «superpoliziotto». Ma l’articolo 104 della Costituzione ancora stabilisce che la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere e che anche i magistrati della carriera requirente ne fanno parte; e l’articolo 107 della Costituzione, non modificato, stabilisce che il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario, resta inamovibile e non può essere dispensato o sospeso dal servizio, né destinato ad altre sedi o funzioni, se non lo decide il Consiglio superiore, composto per due terzi da magistrati che esercitano la sua stessa funzione. Sembra che si voglia attribuire alla politica intenzioni che non emergono affatto dal testo della riforma, né da altre proposte di legge ordinaria.

La riforma renderebbe la magistratura «meno libera», più esposta ai poteri esterni, meno capace di difendere i cittadini? Una magistratura che sarà «forte con i deboli e debole con i forti»? Lasciatemi dire: sono semplici slogan lanciati per la campagna referendaria. Si potrebbe polemizzare con i colleghi che li lanciano, chiedendo loro: «Se la riforma sarà approvata dal referendum, tu sei pronto a lasciarti influenzare dai poteri esterni e ad essere forte con i deboli e debole con i forti? Davvero la tua idea di magistrato è così fragile? E davvero, fino ad ora, non ti sei lasciato influenzare e hai sempre coraggiosamente difeso i cittadini?».

Andiamo alla sostanza: perché la separazione delle carriere dei pubblici ministeri e dei giudici? Nel 1999, un’altra riforma costituzionale riscrisse l’articolo 111 della Costituzione, sancendo solennemente quanto segue: «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo. […] Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale». Compare la figura del giudice, le cui caratteristiche intrinseche sono la terzietà e l’imparzialità. Come si fa a sostenere che il distacco delle carriere tra pubblici ministeri e giudici costituisce uno «stravolgimento dell’architettura costituzionale»? Se il pubblico ministero è «parte» – parte pubblica, ma pur sempre parte – il fatto che sia separato nella carriera da quella del giudice rende effettivo il principio dell’imparzialità, ma anche quello della parità delle parti nel processo: quella parità che il giudice civile garantisce senza problemi – ha davanti a sé due parti private, che fanno valere i loro interessi – e che, invece, rischia di essere messa in pericolo o resa più difficile da un pubblico ministero «vicino» al giudice.

Vedete, da una parte non è del tutto sincero chi nega qualsiasi problema di terzietà e imparzialità del giudice penale, sostenendo la sua assoluta autonomia di giudizio in qualunque fase del procedimento (si pensi al giudice per le indagini preliminari che deve decidere sulle richieste di misure cautelari formulate dal pubblico ministero in una fase in cui non esiste ancora il contraddittorio, o deve autorizzare le intercettazioni, o al giudice che deve decidere maxiprocessi di mafia), dall’altra è importante non solo che il giudice sia terzo e imparziale, ma che appaia tale agli occhi del cittadino che ha a che fare con lui e che è intimidito dalle accuse e dal procedimento.

Si è detto che la riforma è ispirata ai principi liberali del processo; è sicuramente così, ma, secondo me, c’è spazio anche per una riflessione cattolica. Chi è il giudice? Una volta il giudizio era affidato al re, o ai sacerdoti, o ai saggi. Nel sistema democratico attuale è affidato a funzionari pubblici selezionati con un concorso di tipo tecnico. Ma, se una volta l’accettazione delle decisioni da parte della comunità derivava dall’investitura divina o dall’autorevolezza di chi giudicava, oggi da cosa deriva? Chi mi dà – a me, piuttosto bravo nelle materie giuridiche, abbastanza fortunato nel concorso, privo di problemi psichiatrici – il potere di stabilire che una persona deve rimanere in carcere per tutta la vita, oppure di assolvere colui che tutti ritengono colpevole? Con quale potere posso stabilire la misura della pena per uno spacciatore, quando la legge fissa il minimo in sei mesi di reclusione e il massimo in venti anni di reclusione? Rosario Livatino – il «piccolo giudice» che è un modello per molti – rispondeva, innanzitutto: STD – sub tutela Dei. Ma non si fermava a questo: sottolineava l’importanza del giudice nel comune sentire sociale «come figura super partes» che non deve essere garante di nessun interesse. Un giudice che non deve «salvare» indagini, se non hanno fornito prove sufficienti, non deve tenere conto di questioni di politica criminale o, semplicemente, di politica perché a quella parte o a quell’imputato deve dare una risposta di giustizia. Per Livatino era «essenziale […] che la decisione nasca da un processo motivazionale autonomo e completo, come frutto di una propria personale elaborazione, dettata dalla meditazione del caso concreto».

Certo: la terzietà e imparzialità non garantiscono l’adozione di sentenze «giuste», ma ne costituiscono uno dei presupposti. Livatino ne indicava altri: l’ascolto della propria coscienza, la incessante libertà morale, la fedeltà ai principi, la capacità di sacrificio, la conoscenza tecnica, l’esperienza, la chiarezza e linearità delle decisioni, ma anche la moralità, la trasparenza della condotta anche fuori dall’ufficio, la normalità delle relazioni, la scelta delle amicizie, la indisponibilità a iniziative e ad affari, la rinunzia a ogni desiderio di incarichi e prebende, la credibilità.

Questo è il giudice che vuole la Costituzione; la società pretende questo giudice ed è disposta a ritenere autorevoli le sue sentenze.

Autore
Panorama

Potrebbero anche piacerti